Mi invitano sempre più spesso a parlare di agroalimentare e di Dieta Mediterranea. Ci si aspetta da me, che ho costruito il Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie Agroalimentari all’Università di Palermo, che sia il cantore della biodiversità alimentare, il bardo della Dieta Mediterranea, il defensor fidei del km 0, dell’agricoltura di prossimità, degli orti urbani, dei grani antichi, della nostra gloriosa (?) tradizione alimentare, di quel mondo frastagliato che immagina un’agricoltura ‘naturale’, una Palermo ‘tutta orto’ magari autosufficiente e vegana.
Beh, no, io non faccio il piazzista, ma il professore e, con buona pace di chi legge, io credo che il nostro mestiere ci obblighi alla cultura critica e non a essere tifosi di un’idea per principio, per fede. Il nostro compito è dubitare dei luoghi comuni, guardare cosa c’è oltre la corrente, soprattutto oltre la corrente del web. Ovviamente io non ho niente contro le cose cui ho fatto cenno, tranne il fatto che le si immagini in perenne, eroica, battaglia contro l’oscuro signore del male, il Monsanto della situazione governato dal cattivissimo Henry Kissinger. Una sorta di Star Wars dell’agroalimentare, con tanto di Regina, Jan Solo (Slow Food o Eataly come il Milleniun Falcon) e di cavalieri Jedi (i cuochi stellati). La mia generazione è cresciuta con il mito della Simmenthal, dei Biscotti Plasmon, del latte concentrato e di tanti altri prodotti – come l’amatissima Nutella – che hanno accompagnato viaggi, gite e crescita. Il frigorifero, rivoluzione anni 50, la frutta sciroppata, i succhi di frutta. Insomma l’industria agroalimentare italiana così come si è sviluppata nel secondo dopoguerra e almeno fino alla fine degli anni 70. Quelli in cui nei paesi della Sicilia si fuggiva alla ‘tradizione’ con i mitici ‘spaghetti al salmone’ che ti davano pure sui rifugi delle Madonie, con buona pace del pecorino all’argentiera.
Poi, l’Italia ha fatto una marcia indietro generale su tutto il tema dello sviluppo industriale e l’agricoltura, l’agroalimentare, non è stata da meno. Abbiamo perso primati su primati, tranne che nel mondo del vino. Ancora oggi, una certò coté intellettuale attacca Ferrero e Barilla come fossero mostri. Io, invece, dico, non sparate sulle flagships. Guardate come è finita sparando su Cirio e su Bertolli. Mi chiedo e chiedo a chi ha strumenti per rispondere se tra il sistema fordista e la nostra corsa verso il piccolo, verso le produzioni tipiche, verso le denominazioni comunali (le mostruose DECO), verso GAS e Km 0, non ci sia una via di mezzo. Non ci sia modo di fare sistema. L’Italia non ha un sistema di grande distribuzione organizzata che propone l’agricoltura italiana. A parte Eataly, che si colloca nella nicchia del lusso e più che altro della somministrazione, solo Esselunga resiste. Andate a New York, Londra, Berlino, Singapore, le troverete piene di ‘Pret a Manger’, ‘Maison Kayser’, ‘Chiplote’ o catene orientali.
E l’Italia? Possiamo immaginare davvero che il nostro sviluppo sia fatto solo di turismo e agroalimentare? Che il tessuto connettivo di un Paese ne divenga l’ossatura? È davvero forte abbastanza? Oppure vuole diventare una sorta di grande Venezia, il Bel Paese pronto ad ospitare chi, nel mondo, produce ricchezza? Non c’è forse, dietro l’angolo, il rischio che il turismo di massa, con uno dei più classici effetti feeedback, possa tradursi in una degenerazione della tradizione.
Quello che penso è che l’Italia deve ritrovare la politica e la forza di ri-costruire un’industria agroalimentare competitiva, che eviti la frammentazione delle presunte eccellenze in un localismo sfrenato, che sia fattore di coesione, in un mondo in cui la ricerca della specificità stenta a costruire un sistema coerente. Piccolo è bello, si, mi capita di dire, solo se è Ferrari o Maserati, ma anche in quel caso, chi voleva competere, e lo faceva più che bene, con le grandi del sistema, si fece adottare da FIAT, garantendo al piccolo la possibilità di giocare in un mondo di grandi. E’ la lezione di Enzo Ferrari, connettere, appunto, non dividere chi ha missioni diverse. Riflettiamoci insieme.
Dissento radicalmente . Non si tratta di aggredire pregiudizialmente e ideologicamente la multinazionale Ferrero , ma di analizzare la realtà per quello che è e non per quello che vorremmo. La Ferrero nelle sue campagne pubblicitarie associa le sue produzioni , nutella in primis , alla parola sostenibilità , è un falso . Vi invito a visitare il territorio della Tuscia dove vi sono 25 mila ettari di nocciole ( un terzo della produzione nazionale ) e la Ferrero è il Dominus di questa realtà . Con la complicità attiva della Ferrero le piantagioni di nocciolo sono dei depositi chimici sia per i concimi e sia per l’uso selvaggio dei pesticidi , compreso il glisofate . Diversi comuni in primis quelli che hanno dato vita a un distretto biologico sono stati costretti ad approvare ordinanze e regolamenti nel tentativo di ridurre i danni da inquinamento del suolo e dell’acqua . La Ferrero rifiuta qualsiasi dialogo e non prende neppure in considerazione la possibilità di sperimentare e di sostenere coltivazioni biologiche.