Connettere. Con l’avvento di internet, è ormai uno dei verbi più usati. Siamo tutti connessi. E tuttavia, questo proliferare di connessioni si configura spesso come un rumore di fondo, dove rimane difficile leggere le relazioni più importanti, fra gli eventi, le competenze, i diversi ambiti di conoscenza. Nonostante l’esponenziale numero di sollecitazioni a cui siamo sottoposti (o forse proprio a causa di ciò), finiamo per chiuderci in ambiti autoreferenziali di rappresentazione della realtà.
Non siamo capaci di riconoscere, per esempio, il rapporto fra il consumo di una bistecca e l’aumento del flusso di migranti attraverso il Mediterraneo; o l’effetto dell’industria della moda sulle guerre in medio oriente. Eppure le connessioni ci sono, e passano tutte attraverso i grandi temi del cambiamento climatico, dell’esaurimento delle risorse e della perdita di biodiversità che, a loro volta, sono connessi ai temi dell’economia, dei mutamenti culturali, delle scelte tecnologiche e dei modelli istituzionali.
Come se non bastasse, siamo ancora dominati da un paradigma che vede la causa e l’effetto legate da una relazione diretta e univoca (l’approccio “newtoniano”, direbbero gli epistemologi), e ci manca quella che possiamo chiamare la cultura sistemica. Eppure siamo immersi in sistemi complessi, cioè sistemi composti da molti componenti che possono interagire tra loro. Questi sistemi sono caratterizzati dal fatto che, contrariamente a quelli newtoniani, sollecitati dalla stessa perturbazione danno luogo ogni volta una risposta diversa, prevedibile solo in termini di maggiore o minore probabilità, mai con certezza assoluta. Questi sistemi, inoltre, possono raggiungere condizioni di instabilità, nelle quali una anche minima perturbazione può portarli al collasso. Sono sistemi complessi il clima globale della Terra, gli organismi viventi, la mente umana, le organizzazioni sociali ed economiche, le città, gli ecosistemi, i paesaggi.
Oggi abbiamo una sfida fondamentale a cui fare fronte: mantenere il pianeta lontano dalla instabilità (gli anglosassoni la chiamano “tipping point”, punto di ribaltamento), salvaguardando gli equilibri della biosfera e garantendo così le condizioni per permettere agli individui di questa e delle prossime generazioni, di ambire – attraverso la società – a una sempre migliore qualità della vita.
La comunità scientifica non ha dubbi, e lo ripete da anni: non c’è alcuna speranza di vincerla, questa sfida, senza interventi che limitino in modo radicale l’aggressione al pianeta. Noi crediamo che ciò possa avvenire solo modificando in modo sostanziale il modello economico corrente, che è la causa prima, assieme alla crescita demografica, della malattia della nostra casa comune: la Terra. Già, perché sono le attività economiche che determinano un impatto sulla biosfera, utilizzandone le risorse e riversandovi rifiuti, e a sua volta la biosfera, se alterata, dà luogo ad effetti che hanno un impatto sul sistema economico, e – in definitiva – sulla nostra vita quotidiana.
Ma, a sua volta, il sistema economico è governato da cultura, istituzioni, valori. Interseca, cioè, ambiti di conoscenza diversi, quali la filosofia, il diritto, la psicologia, la religione, la sociologia, l’arte, per citarne solo alcuni; ambiti di conoscenza e di azione che a loro volta sono condizionati dall’evolversi della tecnologia, che è il prodotto e insieme il motore del sistema economico. Quindi il cambiamento del modello economico implica che anche i nostri valori, i nostri comportamenti, il modo di produrre, le tecnologie, i modelli istituzionali debbano cambiare. E tutti questi aspetti sono connessi fra loro.
Tutto ciò non può avvenire facilmente e spontaneamente, e nei tempi brevi che abbiamo a disposizione prima che la situazione ci sfugga di mano. Occorre cercare di accelerare la transizione dal modello socio-culturale che ha prodotto il problema a un altro. Il fatto è che ancora non sappiamo quale debba essere questo nuovo modello. Non possiamo che abbozzarlo a grandi linee, perché di un sistema complesso stiamo parlando e progettarlo significa tracciarne le possibili traiettorie evolutive che, come ci insegna la scienza della complessità, non sono prevedibili con certezza.
Ci rendiamo conto che per avviare il processo bisogna prima di tutto fare crescere la visione sistemica e determinare un salto di qualità nella nostra capacità di interpretare, e quindi governare i fenomeni complessi. Siamo qui per questo, con l’ambizione di riflettere sulle connessioni tra le più distanti discipline e i più distanti eventi, col fine ultimo di prendere coscienza ed esplorare le trasformazioni culturali, sociali, istituzionali e politiche necessarie affinché si vinca la sfida. E non in termini astratti, ma cercando gli effetti concreti dell’analisi sistemica, per esempio, sul ruolo e la natura dell’impresa, sui comportamenti individuali, sul sistema politico, sulla governance dei processi di globalizzazione e digitalizzazione. Rifletteremo sui sistemi di valori e sulle forme espressive delle nostre società, e di come queste possano anticipare ed influenzare la necessaria transizione. E certamente ci sorprenderemo nel trovare risposte anche – e forse soprattutto – dove non le stavamo ancora cercando.
L’ iniziativa mi sembra molto interessante soprattutto se partiamo dall’affermazione :
Appare però sempre più evidente che per avere successo e riuscire ad incidere nei prossimi decisivi 20-30 anni, le “disruptive technologies” da sole non basteranno, ma dovranno essere accompagnate da nuovi modelli di vita e di sviluppo. Una rivisitazione necessaria anche per affrontare le crescenti diseguaglianze sociali.
Non è possibile che ormai le pubblicazioni accademiche e no, scientifiche e no, che chiariscono come il Capitalismo sia entrato in un crisi senza via di uscita; o ancora come le diseguaglianze sociali (che vuol dire economiche, culturali, nei saperi, ecc.) sono il verme che corrode la società, non trovano udienza e attenzione nella cultura del nostro paese (l’uomo forte del nostro nuovo governo è un difensore delle diseguaglianze come motore di sviluppo).
Esiste una variabile tecnologica importantissima, ma essa è “vincolata” al sistema di produzione capitalistico, i suoi possibili frutti hanno bisogno di crescere in un ambiente culturale ed economico diverso.
Tanto per fare un esempio marginale: la guerra commerciale che gli Stati Uniti vogliono alimentare quali effetti avrà sulla produzione di CO2?
Non voglio farla troppo lunga, ritengo che “connettersi” può essere un contributo rilevante se riuscissimo a cogliere il nesso determinante tra formazione sociale, tecnologia e ambiente.
Bellissima iniziativa. Oggi più che mai sembra necessario gettare uno sguardo sulla realtà da una prospettiva nuova, sospendendo i giudizi che ogni disciplina professionale ed accademica porta inesorabilmente con sé. Prendiamo per esempio lo studio della città. Da quali categorie professionali dovrebbe essere condotto? A che settore scientifico-disciplinare fa davvero riferimento? Ricordando un ottimo passaggio di David Harvey, geografo marxista, ogni disciplina è reazionaria – o per meglio dire la divisione del sapere in discipline è un’azione chiaramente controrivoluzionaria. Ben venga quindi connettere. Speriamo che si apra qui un meraviglioso spazio di dibattito pubblico sulla situazione del mondo e sulla costruzione di un nuovo futuro comune.
Un breve commento costruttivo: mi pare che, in un momento come questo, occorrerebbe esprimere maggiormente il senso della catastrofe in corso. E, al tempo stesso, mostrare che è possibile riconoscere e coltivare i segnali di una nuova civilizzazione.
Certo: la prima affermazione sembra in contrasto con la seconda e, di fatti, lo è. Infatti, il modo attuale, nella sua complessità, non può essere raccontato con una sola storia.
In questo contesto, connettere significa anche, e forse soprattutto, avere la capacità di tenere assieme diverse narrazioni, dando evidenza, al tempo stesso, alla drammaticità dell’attuale stato delle cose (e alle nefaste tendenze in esso dominanti) e all’esistenza un universo di persone, gruppi, organizzazioni e (anche) segmenti di istituzioni che si muovono in senso opposto. Certo, questo arcipelago di modi di fare e di pensare sostenibili ha poca visibilità. Ma, a mio parere, è altrettanto reale del trend catastrofico dominate e, potenzialmente, altrettanto capace di incidere sul mondo. Per vederlo, occorre però connettere i punti e far emergere così l’immagine di mondi possibili. Anche questo, credo, è connettere.
L’iniziativa è al limite del temerario, perché richiede un livello di interazione difficile da realizzare, in tempi in cui siamo attratti da mille stimoli e proposte di siti, blog, whatsApp…..
Va nella direzione giusta, che è quella di costruire premesse per la transciplinarietà, unico modo per affrontare le crescenti complessità del presente.
Per quel che potrò, Giuseppe sa di poter contare su di me e sulla Fondazione Benetton.
Buon lavoro a tutti.
p.s. in tempi di sovraesposizione mediatica capisco la voglia di non apparire troppo come singoli, però l’assenza dei nomi dei promotori non mi convince.