I contributi di Gianni Silvestrini prima (Mobilitarsi per il clima è anche rivedere il nostro modello economico) e quello di Giuseppe Barbera dopo (Antropocene, Agricoltura, Paesaggio) mi inducono a ulteriori considerazioni. Giuseppe Barbera ci dice – fra l’altro – che se vogliamo farcela, se vogliamo evitare o attenuare la sesta estinzione, dobbiamo riportare il pianeta dentro lo Spazio Operativo Sicuro, ovvero dentro i limiti planetari; il che, aggiunge, mette definitivamente in crisi il paradigma produttivista.
Gianni Silvestrini, concentrando l’attenzione su uno dei limiti planetari, il cambiamento climatico, arriva alla conclusione che per tenerlo sotto controllo occorre “rileggere tutte le scelte economiche”.
Io vorrei aggiungere un ulteriore elemento di riflessione, partendo da Kate Raworth e la sua “Economia della ciambella”. Il problema, nella sua completezza, si pone infatti nei termini seguenti: non basta essere capaci di rientrare nello spazio operativo sicuro, ma occorre pure soddisfare le condizioni sociali essenziali, quelle indicate dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2015 attraverso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG), che includono anche obiettivi economici e sociali, oltre a quelli ambientali.
Kate Raworth riassume gli SDG di natura sociale trasformandoli in undici “fondamenti sociali”, e definisce uno “spazio sicuro e giusto per l’umanità” nel quale sono soddisfatti tanto i limiti planetari, che sono biofisici, quanto i fondamenti sociali, i cui valori-soglia devono essere raggiunti per ottenere una qualità della vita accettabile.
Questo approccio costituisce la base concettuale di una ricerca pubblicata nel febbraio del 2018 e di un suo affinamento, pubblicato nel dicembre dello stesso anno. Gli autori calcolano il valore di ciascun confine biofisico e di ciascun fondamento sociale per ben 150 paesi. Il risultato non dà luogo ad equivoci: in atto non c’è alcun paese al mondo capace di soddisfare i fondamenti sociali mantenendosi entro i confini biofisici. Viceversa, i paesi che si mantengono entro i confini biofisici son ben lontani dal soddisfare i fondamenti sociali. Da notare che i fondamenti sociali sono soddisfatti nei paesi ricchi e i limiti biofisici sono rispettati in quelli poveri.
Alle stesse conclusioni si arriva mettendo in correlazione, per tutti i paesi del mondo, l’impronta ecologica (che misura l’impatto ambientale, il grado di sostenibilità) e l’indice di sviluppo umano (un indicatore elaborato dal’ONU per misurare la qualità della vita), come mostrato in un recente rapporto della UE, in cui si afferma che “non un solo paese ha raggiunto un alto sviluppo umano entro i confini planetari”.
Da queste evidenze si possono trarre le seguenti conclusioni:
- Per i paesi a basso reddito, che sono ben al di sotto dei confini biofisici, il raggiungimento di tutte le soglie sociali chiave comporterà almeno un aumento della loro impronta biofisica, cioè del loro impatto ambientale. Ciò significa anche aumentare l’impronta biofisica aggregata globale, il che è problematico dato che quattro confini planetari sono già stati superati e gli altri si avviano ad esserlo.
- L’unico modo per le nazioni del Sud del mondo di raggiungere tutte le soglie sociali senza innescare ulteriori superamenti dei limiti planetari globali è che le nazioni ricche riducano significativamente le loro impronte biofisiche.
- Poiché è ormai dimostrato che la crescita del PIL non può essere completamente disgiunta dalla crescita del consumo di materiali e di energia, la crescita del PIL non può essere sostenuta indefinitamente senza superare i limiti biofisici.
- Alla luce di ciò, raggiungere una buona qualità della vita per tutti entro i limiti planetari richiederà che le nazioni ricche inizino gradualmente a ridurre la loro attività economica aggregata (di cui il PIL è un indicatore), intraprendendo una traiettoria di decrescita pianificata.
Sembra di leggere l’Enciclica Laudato si’, dove dice: “Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti”.
Ecco, dunque, cosa significa in pratica “rileggere le scelte economiche”, come afferma Gianni Silvestrini. Non significa riaggiustare un po’ il tiro per dare la sensazione che si sta facendo qualcosa di “verde”. Occorre invertire la rotta, e riconoscere che consumismo, crescita indefinita del PIL, crescita indefinita dei consumi energetici e della estrazione di materiali, sono tutti fattori che sostengono l’Antropocene e la sesta estinzione.
Una “economia verde”, dunque, non è l’attuale economia che si adatta al fine di soddisfare giustizia sociale ed equilibrio ecologico, è un’altra economia, basata su presupposti antitetici: la crescita indefinita non può essere sostenibile. Oltre una certa soglia un ulteriore l’aumento del PIL rende impossibile che tutti gli abitanti del Pianeta vivano una vita decente senza al contempo distruggere il Pianeta.
E c’è un altro elemento da tenere in conto: la decrescita per i paesi ricchi deve essere accompagnata da un forte sostegno, economico, tecnologico, organizzativo e culturale, ai paesi poveri – e non per generosità o buonismo, ma per puro egoismo, perché siamo tutti nella stessa barca, e se si rovescia rischiamo di annegare tutti, ricchi e poveri.
Purtroppo, non sembra che lo abbiano capito i nostri politici e la maggior parte dei nostri imprenditori. Per entrambi, verde coincide con due cose: energia rinnovabile, che cresca indefinitamente al posto di quella fossile, e riciclo – in modo da guadagnarci due volte: una volta producendo roba superflua e un’altra volta riciclandone una parte, con costi ambientali non trascurabili. Insomma business as usual, dipinto di verde.
Per fortuna la classe politica del mondo sviluppato non è rappresentata solo dall’Italia. Altrove qualcosa si muove. In Svezia, per esempio, c’è una carbon tax e si possono detrarre dalle tasse le spese di riparazione degli elettrodomestici: non è riciclandoli che si è verdi, ma riparandoli e riusandoli.
Nell’America di Trump nasce il Green New Deal, che richiama il New Deal di Roosevelt, messo in atto per combattere la Grande Depressione del 1929 e, in analogia, propone un significativo intervento pubblico per aumentare i posti di lavoro, migliorare i servizi sociali e – allo stesso tempo – passare dalle fonti fossili alle rinnovabili. Naturalmente più o meno sottintesa è la crescita “verde”. Ma non si può pretendere troppo, data la situazione.
Sulla stessa lunghezza d’onda si sta ponendo il partito laburista britannico, ma la esistenza di economisti come Tim Jackson, autore di “Prosperità senza crescita” lascia sperare che la contraddizione insita nella locuzione “crescita indefinita sostenibile” venga messa nel conto.
Segnali più confortanti vengono dai verdi tedeschi, precursori della introduzione dei temi ambientali nella politica.
E noi che possiamo fare? Intanto non lasciamo cadere i venerdì di Greta, anzi cerchiamo di dare loro più contenuto e forza. Non sono le buone trasmissioni relegate alle ore notturne (non a caso) o le brevissime interviste in cui non si può spiegare niente a dare la spallata che ci vuole.