La necessità di connettere e riconoscere connessioni, impone di considerare il paesaggio non come complemento, seppure importante, alla comprensione di realtà complesse, ma come espressione sistemica per eccellenza, la più compiuta, della realtà naturale fisica e biologica, della sua evoluzione storica, della cultura che su di esse è intervenuta e ne è stata improntata.
Il termine paesaggio nasce, nel Cinquecento, dalla pittura e ancora oggi rimane frequentemente relegato al campo dell’estetica. Così è ancora nella prevalente accezione che trascura come esso rifletta una identità territoriale, che va ben al di là dei valori estetici o di quelli naturali e ambientali ma è costituita da quelli sociali, economici, identitari, spirituali. Il paesaggio è espressione del progetto di una comunità, costruzione sociale capace di confrontarsi, in continua evoluzione, con il tempo, con bisogni, piaceri, valori mutevoli. Ne amplia i confini, non limitandoli a quelli antropici ma a quelli di tutti i viventi: da una visione antropocentrica a una visione globale, planetaria.
Nel paesaggio prende piena consistenza l’antichissima consapevolezza che utilità e bellezza siano coincidenti e che quest’ultima, o meglio la sua teoria -l’estetica-, si identifichi, nel paesaggio, con l’etica, con la coscienza morale e i suoi effetti dell’uomo verso se stesso, i suoi simili, gli altri viventi, i luoghi. Ethos, nell’antica Grecia era “il posto del vivere” e oggi, nelle modificazioni che storia e cultura hanno imposto alla natura, risulta evidente come sia importante richiamarsi a rapporti che rimandino all’armonia, all’equilibrio, alla circolarità, insomma alla sostenibilità: lo affermano sia l’etica che l’ecologia.
Un paesaggio, non è da guardare ma, soprattutto, da vivere. Esiste in proposito, dal 2000, una Convenzione Europea, nata per iniziativa del Consiglio di Europa e oggi ratificata dalla stragrande maggioranza degli stati membri (l’Italia nel 2006) che, già nel preambolo, fa affermazioni molto importanti e chiare : Gli stati firmatari “ desiderosi di pervenire ad uno sviluppo sostenibile fondato su un rapporto equilibrato tra i bisogni sociali, l’attività economica e l’ambiente” constatano “che il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro”. Sono “consapevoli che coopera all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea”; “Riconosce che è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni: nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana” Osserva “che le evoluzioni delle tecniche di produzione agricola, forestale, industriale e pianificazione mineraria e delle prassi in materia di pianificazione territoriale, urbanistica, trasporti, reti, turismo e svaghi e, più generalmente, i cambiamenti economici mondiali continuano, in molti casi, ad accelerare le trasformazioni dei paesaggi”.
Purtroppo, in queste affermazioni, poco si riconoscono successivi indirizzi e metodi della grande maggioranza delle politiche vigenti infrastrutturali, industriali, energetiche, agricole. Nella pratica è più facile incontrare azioni dal basso, organizzate o spontanee, emozionali o razionali, che mettono insieme sensibilità culturali diverse e diffuse e consistenti interessi collettivi. I campi di scontro e non d’incontro sono molti e se ne presentano di continuo: si pensi al gasdotto TAP in Puglia e alla difesa degli uliveti secolari, alla TAV e alle montagne piemontesi, agli impianti eolici e alle colline meridionali.
Il tema non è, qui, entrare nel merito delle singole diatribe ma considerare come in questi casi e in chissà quanti ancora, le soluzioni sono più che altro autoritarie (spesso addirittura di polizia) e rimandate nel tempo, anche quando dovrebbero affrontare temi drammaticamente urgenti, come è nel caso delle nuove energie e della risposta ai cambiamenti climatici.
E’ evidente – e sarebbe un grave errore, anche soltanto tattico, sottovalutarlo – che a tali indiscutibili necessità e urgenze altre se ne contrappongono altrettanto legittime: il paesaggio è il luogo dell’identità culturale e sociale di una comunità, patrimonio collettivo.
Lo è per sua natura e storia, non per ragioni estetiche venute alla moda. C’è un solo modo per sfuggire a un braccio di ferro che vedrà, altrimenti, solo perdenti: il fallimento del contrasto al climate change e insieme l’abbandono delle aree interne, delle campagne marginali con risultati catastrofici in termini di difesa del suolo, mantenimento della biodiversità, contrasto agli incendi. La soluzione si trova nell’esperienza di tutti i paesaggi antropici di lunga durata costruiti dall’uomo nella ricerca di un equilibrio tra necessità economiche, ambientali, culturali. A questi paesaggi bisogna tendere e questo è tutt’altro che uno sguardo romantico ad antichi equilibri ma è la sfida di un nuovo complessivo progetto: progetto di evoluzione. Sfida difficile, ma possibile da vincere, se si diventa consapevoli della necessità di connettere sapere e sentimenti, comunicazione e partecipazione, cioè della necessità di progetti paesaggistici. La più grande urgenza è venir fuori, di fronte alla sfida irrisolta della complessità, dall’abisso di ignoranza del sapere riduzionista, oggi imperante anche nella formazione scientifica di eccellenza (si pensi ai criteri di valutazione bibliometrici della ricerca, dei quali sarebbe bene parlare ancora) e perciò trionfante.
Questi temi trovano un approfondimento nella lettura del libro di Joan Nogué Paesaggio, Territorio, Società Civile pubblicato dalle Edizioni Libria nel 2017.