Il mondo scientifico lancia continui allarmi sull’emergenza climatica, indicando obbiettivi e possibili percorsi di riduzione delle emissioni.
Ma la produzione di gas climalteranti continua a crescere, seppure ad un ritmo inferiore rispetto a quello dell’economia. Nell’ultimo decennio le emissioni globali sono aumentate infatti del 15% a fronte di un incremento del Pil del 45%. Un disaccoppiamento però del tutto insufficiente. Di fronte all’accelerazione dei fenomeni estremi, le istituzioni, ad iniziare dalle Nazioni Unite, concordano infatti sulla necessità di ridurre drasticamente l’uso dei fossili. Come ricorda l’UNEP nel suo rapporto “Emissions Gap report 2019”, se nel prossimo decennio le emissioni non caleranno ogni anno del 7,6% non sarà possibile stare sotto il grado e mezzo di aumento di temperatura. Un obbiettivo estremamente ambizioso.
La riduzione annua necessaria per non superare i 2 °C sarebbe invece del 2,7%. Un percorso comunque arduo, considerando che tra il 2015, anno della firma dell’Accordo sul clima di Parigi, e il 2019 le emissioni sono in realtà cresciute del 4%. E aumenta anche la temperatura media mondiale che ha ormai superato di 1,1 °C i valori preindustriali. E’ chiaro che di fronte a questa evoluzione, occorre impostare una strategia molto coraggiosa.
Ma quali sono le posizioni che vanno configurandosi nei confronti dell’emergenza climatica?
Partiamo da coloro che ritengono impraticabile il target dei 1,5 °C, e problematica anche la possibilità di stare sotto i 2 °C. Vi troviamo i governi di paesi negazionisti, come gli Usa e il Brasile, non interessati ad affrontare questa sfida. E naturalmente i tanti media che continuano a seminare dubbi sulla stessa crisi climatica. Ci sono poi gli esperti più vicini al mondo dei fossili, scettici sulla possibilità di riuscire ad avviare riduzioni delle emissioni così rapide. Pensiamo in Italia al direttore della rivista Energia, Alberto Clô. Inseriamo in questo gruppo anche chi è convinto della gravità della situazione, come David King già chief scientist del Governo britannico, ma ritiene siano necessarie anche le tecniche di geo-ingegneria, come spargere degli aerosol nella stratosfera per contenere la radiazione solare. Un approccio pericoloso per i possibili effetti collaterali.
Ci sono poi molti, economisti, industriali e ambientalisti, rappresentanti delle istituzioni che ritengono invece ancora fattibile un deciso taglio delle emissioni. Si punta sulle evoluzioni delle tecnologie green, sull’adozione di una carbon tax e sull’assorbimento della CO2 da parte di foreste, suoli e sulla sua cattura e iniezione nel sottosuolo. Per esempio, un rapporto per la Banca Mondiale coordinato da Joseph Stiglitz e Nicolas Stern sostiene che la transizione verso un’economia low-carbon coerente con gli obbiettivi di Parigi è fattibile e si può tradurre in un potente, attrattivo percorso di crescita sostenibile, caratterizzato da una maggiore resilienza e città più vivibili. Del resto, questa è la posizione anche dell’Unione Europea, con il lancio del Green Deal coerente con l’obbiettivo di divenire “carbon neutral” nel 2050 (che consentirebbe di soddisfare il target dei 2 °C, ma non quello di 1,5 °C).
C’è infine un terzo filone, al momento minoritario, di esperti secondo i quali la sfida climatica si potrà vincere solo abbinando agli interventi tecnologici anche radicali cambiamenti economici e mutamenti degli stili di vita. Diversi studi, come vedremo, iniziano ad includere queste variabili nei loro scenari di riduzione. Si ispirano a queste posizioni i milioni di ragazzi di Fridays For Future che sfilano nelle strade, le manifestazioni di Extinction Rebellion, le radicali proposte di esponenti politici come Alexandria Ocasio-Cortez negli Usa.
La rinnovabili corrono
Partiamo proprio dalla efficacia di quelle che vengono definite “disruptive technologies”.
Oggi si può essere più fiduciosi sulle possibilità di contenere le emissioni grazie ai miglioramenti delle prestazioni e alla competitività di diverse tecnologie, dalle rinnovabili alla mobilità elettrica, dalla digitalizzazione ai progressi delle nanotecnologie. I prezzi del solare e dell’eolico sono crollati e continueranno a calare. Oggi un modulo fotovoltaico costa il 90% in meno rispetto ai valori di un decennio fa. L’energia eolica e quella solare forniranno quasi un decimo della domanda elettrica mondiale nel 2020 e sono, secondo Bloomberg New Energy Finance, le tecnologie più competitive in paesi che ospitano due terzi della popolazione mondiale. Un risultato interessante viene dall’Europa dove nel 2019, per la prima volta, l’elettricità verde ha superato quella da combustibili fossili.
Insomma, in soli trent’anni le rinnovabili ne hanno fatta di strada, ma riusciranno a soddisfare il 100% dei consumi elettrici, come molti si augurano, entro il 2050? In effetti, diversi paesi si sono dati obbiettivi anche più ambiziosi. La California, come le Hawaii e New Mexico, intendono arrivarci già nel 2045, la Danimarca e l’Austria nel 2030, la Scozia nel 2020.
C’è però un problema. Quando la percentuale di elettricità solare ed eolica diventa elevata, in particolari momenti del giorno la produzione supera la domanda elettrica. Il risultato è che sole e vento potrebbero vedere un crollo della loro remunerazione in quelle ore. E’ questa la ragione per cui, ad esempio, l’ultimo rapporto della IEA, l’Agenzia Internazionale dell’Energia, stima che nello scenario “Stated Policies”, cioè con le attuali politiche, l’energia solare e quella eolica arriveranno a coprire solo un quarto della domanda elettrica nel 2040.
Ma, per l’appunto, queste valutazioni sono fatte a politiche correnti, mentre sotto la spinta dell’emergenza climatica i paesi stanno alzando i propri obbiettivi. L’Unione Europea, ad esempio, intende portare dal 40% al 50-55% il target di riduzione delle emissioni al 2030 rispetto al 1990. Peraltro, l’eccesso di produzione rinnovabile potrà essere gestito migliorando le capacità di accumulo, potenziando le reti elettriche e governando la domanda. In particolare, per le batterie si sta assistendo ad una curva di apprendimento simile a quella del fotovoltaico. Il costo dei sistemi di accumulo al litio è infatti calato dell’89% tra il 2010 e il 2020. Un esempio dei cambiamenti già in atto viene dalla recente decisione della CPUC, l’Autorità californiana per l’energia elettrica, a favore di quattro grandi sistemi di accumulo per 567 MW (i più grandi sistemi al mondo), considerandoli più convenienti rispetto al funzionamento di tre gruppi a metano.
Per finire, giova ricordare che la diffusione delle rinnovabili elettriche, come di altre tecnologie innovative, segue l’andamento di una curva logistica. Per raggiungere il primo 1% di penetrazione sul mercato i tempi sono lunghi, dall’1 al 5% la crescita aumenta velocemente per poi letteralmente esplodere.
Dunque, è altamente probabile una progressiva e rapida sostituzione del carbone e del metano nella produzione elettrica. E questa evoluzione riguarderà tutti i paesi, da quelli più industrializzati a quelli in cui l’accesso all’energia elettrica è più problematico. Prendiamo l’Africa. Secondo la IEA, in questo Continente le fonti rinnovabili potrebbero svolgere un ruolo trainante arrivando a coprire tre quarti della nuova generazione elettrica al 2040. In particolare il fotovoltaico diverrebbe la prima tecnologia per potenza installata. Quello delle energie pulite sembrerebbe dunque un percorso in discesa, inarrestabile. In realtà la situazione è più complessa, perché questa rapida crescita riguarda solo la generazione di elettricità, mentre la sostituzione dei combustibili fossili nel settore dei trasporti e negli usi termici è più problematica. Se infatti a livello mondiale le rinnovabili coprono attualmente poco più di un quarto (26%) dei consumi elettrici, il loro contributo sulla totalità dei consumi energetici scende al 18%, o meglio all’11% se non si considerano gli usi dei combustibili come legna e carbonella nei paesi poveri.
L’elettrificazione dei consumi decisiva per la lotta climatica
Ma le rinnovabili potranno aggredire anche i settori della mobilità e della produzione di calore grazie, in larga parte, al processo di elettrificazione in atto.
In effetti, la percentuale dell’elettricità nei consumi di energia finali nel mondo è già salita dal 13% del 1990 al 18% nel 2016. Negli scenari di lungo periodo questa percentuale è destinata a crescere notevolmente, grazie alla diffusione dei veicoli elettrici, delle pompe di calore e più in generale grazie alla digitalizzazione. Considerando che la generazione elettrica si fa sempre più green, l’abbinamento elettrificazione/rinnovabili costituirà quindi un potentissimo assist al processo di decarbonizzazione dell’economia.
Uno dei settori che sta per essere coinvolto e travolto da questo processo è quello dell’automotive. La mobilità elettrica vede anno dopo anno una revisione verso l’alto delle previsioni sulla sua diffusione. Nel 2020 si potrebbe sorpassare l’asticella dei 10 milioni di autoveicoli in circolazione nel mondo. E quando, attorno al 2023, Il prezzo delle batterie al litio raggiungerà il valore di 100 $/kWh, alcuni modelli di auto elettriche diventeranno competitivi con quelle convenzionali.
Per stare sotto il target dei 2 °C, nel 2030 un quinto del parco mondiale delle auto dovrà essere a trazione elettrica, un obbiettivo che dovrebbe essere raggiungibile considerando che già nel 2025 un quarto delle auto vendute la Cina, il più grande mercato automobilistico al mondo, dovrebbe essere a trazione elettrica. La corsa, del resto, è già partita. Diversi paesi hanno deciso infatti di introdurre normative che ne obbligano la diffusione (dalla California alla Cina, fino, implicitamente, alla stessa Europa, considerando i target di CO2/km introdotti). E ben 21 paesi hanno anche fissato una data, tra il 2025 e il 2040, oltre la quale non si potranno vendere auto a benzina e diesel.
La trasformazione del mondo automobilistico aprirà opportunità notevoli, ma comporterà anche rischi, in particolare per le compagnie partite in ritardo. Le case produttrici hanno deciso di investire nei prossimi 5-10 anni 300 miliardi $ nell’elettrico, sapendo di non avere scelta. La capacità di affrontare con decisione la nuova sfida può portare a risultati interessanti. Secondo una ricerca di Motus-e e Ambrosetti, il comparto della mobilità elettrica potrebbe arrivare a fatturare in Italia oltre 90 miliardi € nel 2030.
La centralità della riduzione dei consumi
Come abbiamo già visto le rinnovabili coprono poco meno di un quinto della domanda di energia mondiale. Malgrado l’accelerazione della loro diffusione (in tutti gli anni successivi al 2011 la potenza verde installata globalmente ha superato quella delle nuove centrali a carbone e a metano) è chiaro che per riuscire a liberarsi dai fossili nel giro dei prossimi 3-5 decenni saranno decisive le misure per contenere la domanda di energia. Infatti, minori sono i consumi, più facile è la loro copertura con le rinnovabili. Alcuni paesi, come la Germania, intendono dimezzare i consumi entro il 2050, altri come la Cina puntano a stabilizzare la domanda di energia. Ma raggiungere questi obbiettivi non sarà semplice.
Per capire meglio la capacità di incidere sull’evoluzione della domanda di energia, è utile osservare la variazione dell’intensità energetica, cioè del consumo di energia per unità di Pil. Dal 2010 a oggi essa si è ridotta mediamente del 2%, ma se volessimo allinearci con gli obbiettivi di Parigi la riduzione annua dovrebbe essere del 4%.
Cos’è dunque che non funziona?
Sostanzialmente per tagliare i consumi occorrono tecnologie efficaci, un contesto politico che ne favorisca la diffusione e per ultimo, un cambiamento degli stili di vita. I miglioramenti tecnologici coprono moltissimi settori. Pensiamo alle efficientissime lampade Led che negli ultimi sei anni sono passate dal 5% al 40% del mercato globale.
Le tecnologie però da sole non bastano.
La politica può definire limiti ai consumi delle auto, dei frigoriferi, dei motori elettrici. Può incentivare la riduzione dei consumi nell’edilizia come nell’industria. Può orientare investimenti nella ricerca di alternative ai fossili. Azioni avviate con successo in diversi paesi.
Il ruolo centrale della tassazione del carbonio
Ma i governi dovrebbero anche disincentivare l’uso dei combustibili fossili, togliendo i sussidi di cui godono e introducendo una carbon tax. Queste azioni incontrano però la resistenza del mondo dei fossili. Nel 2009, i paesi del G20 decisero di eliminare progressivamente i sussidi ai combustibili. Ma nel 2018 questi sono aumentati del 29% rispetto al 2015.
Neanche per quanto riguarda la tassazione del carbonio siamo sulla buona strada. Come ci ricorda il Fondo Monetario Internazionale, il valore medio nei 28 paesi che hanno adottato questa imposta è infatti di soli 2 dollari alla tonnellata. La stessa istituzione, convinta che “la carbon tax rappresenti il più efficace e potente strumento per combattere l’emergenza climatica”, propone di alzare progressivamente il suo valore fino ad arrivare a 75 $/t CO2 nel 2030. Tra i paesi che hanno introdotto questa misura svetta la Svezia, dove è operativa dal 1991 con valori che sono stati innalzati progressivamente fino ad arrivare a 114 €/t. I risultati parlano da soli: a fronte di un aumento del Pil del 78%, le emissioni climalteranti sono calate del 26%. Il tema è tornato di attualità con la recente proposta tedesca di adottare una carbon tax nel settore dell’edilizia e dei trasporti, che dovrebbe passare dai 25 € nel 2021 ai 55 € nel 2025, definendo diverse misure di compensazione come la riduzione delle bollette elettriche e dei biglietti dei treni.
Ma parlando di carbon tax, dobbiamo per forza riflettere sull’esperienza francese che ha scatenato la rivolta dei gilet gialli. Uno scenario inevitabile? No di certo, ma una serie di elementi negativi hanno favorito le violente reazioni. Innanzitutto la mancanza di una chiara informazione sulle destinazioni delle entrate e poi la inadeguatezza delle misure di compensazione. Ci sono diverse esperienze che forniscono utili indicazioni sulle modalità di gestire in modo efficace questa misura. Prendiamo quella della provincia della British Columbia in Canada che ha introdotto nel 2008 una carbon tax di 8 $ che arriverà a 39 $/tCO2 nel 2021. Tutte le entrate vengono restituite a famiglie e alle imprese sotto forma di sconti fiscali. Il principio della neutralità fiscale è molto rigoroso, tanto che, in caso di un suo mancato rispetto, è previsto un taglio del 15% dello stipendio del Ministro delle finanze…
Per finire, citiamo una proposta suggestiva, quella dei “carbon dividends”, che sta acquisendo un consenso bipartisan negli Usa, inclusi importanti ministri dei tempi di Bush e Reagan e di candidati democratici alle prossime presidenziali. Sostanzialmente, secondo questo approccio le entrate della carbon tax verrebbero distribuite in maniera uniforme tra tutti i cittadini, in modo che chi consuma di più paga di più e la fascia più povera ne ricava un vantaggio netto.
E’ stato calcolato che con un prezzo di 50 $ della tonnellata di CO2, la fascia del 10% della popolazione Usa più ricca vedrebbe una decurtazione del proprio reddito annuale dell’1%, mentre le entrate della decima parte più povera aumenterebbero del 5%.
Ma… occorre cambiare gli stili di vita e riorientare il modello economico
Ma torniamo sull’importanza dell’efficienza energetica per capire il suo ruolo sul lungo periodo nel ridurre i consumi. Le valutazioni della IEA al 2040 variano a seconda degli scenari analizzati. In quelli più spinti, si calcola che si riuscirebbe a stabilizzare la domanda di energia malgrado un Pil più che raddoppiato. I rapporti della Iea, come del resto molti scenari di riduzione delle emissioni, analizzano in dettaglio tutti i miglioramenti possibili nei vari settori – industria, edilizia, trasporti – e valutano anche le tecnologie per catturare la CO2 dall’atmosfera. Ma le possibili riduzioni dei consumi legate ai cambiamenti comportamentali vengono sottostimate o non considerate.
Eppure, diventa sempre più chiaro che senza una modifica degli stili di vita molto difficilmente la sfida climatica potrà essere vinta. Del resto, stanno emergendo studi che includono una valutazione delle scelte non tecnologiche. Per esempio, in un recente rapporto del Fraunhofer Institute, “Study on Energy Savings Scenarios 2050”, si stima che l’ottimizzazione delle tecnologie e la rimozione degli ostacoli che ne impediscono la diffusione consentirebbero di dimezzare la domanda di energia europea a metà secolo. Ma, considerando anche l’impatto di quei parametri che vengono raggruppati nella definizione di New Social Trends (cambiamenti degli stili di vita, shared economy, digitalizzazione..), la domanda di energia potrebbe ridursi di due terzi.
Dunque, andrà prestata attenzione a questi aspetti, ma è chiaro che per ottenere risultati significativi occorre anche un ruolo deciso delle istituzioni e un ri-orientamento della finanza. L’Europa con il lancio del Green Deal sembra andare nella direzione giusta. Una scossa tettonica per l’economia secondo il vicepresidente della Commissione Timmermans, destinata a mobilitare molte centinaia di miliardi per consentire il necessario drastico taglio delle emissioni di climalteranti. Una scelta destinata ad influire anche nelle scelte di altri paesi del pianeta.
La stessa finanza, che ha un ruolo fondamentale nell’indirizzare gli investimenti, sotto l’incalzare dell’opinione pubblica e dei fenomeni estremi, inizia a muoversi. “Siamo sull’orlo di una completa trasformazione, perché il climate change obbliga gli investitori a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna». Questa la riflessione di Larry Fink, presidente di BlackRock, la più importante società di gestione di fondi con un portafoglio di quasi 7 mila miliardi $.
Insomma, l’emergenza climatica obbligherà a rivedere gli stessi modelli economici.
2020, anno decisivo per la lotta climatica
Sono molti gli avvenimenti che nel corso del 2020 potranno accelerare o frenare il contrasto al “global warming”.
A cinque anni dall’Accordo di Parigi, gli Stati che lo hanno ratificato devono infatti indicare la volontà di alzare i propri obbiettivi di riduzione delle emissioni. Al momento sono 116 paesi, fra cui quelli europei, che stanno rivisitando gli impegni presi. Ma poi c’è l’incognita Trump. Il 3 novembre si svolgeranno infatti le elezioni presidenziali e il loro esito potrebbe avere notevoli conseguenze, al contrario di quanto successo nel primo mandato. A livello internazionale non ci sono state infatti altre clamorose defezioni dall’Accordo di Parigi (si temeva per la Russia). Sul fronte interno è stata decisa la chiusura di centrali a carbone per ben 24.000 MW, le rinnovabili hanno visto una fortissima crescita e molte città e Stati hanno adottato obbiettivi più ambiziosi sul clima. Certo, il Governo ha adottato provvedimenti molto negativi, ma il loro impatto si vedrà però solo nei prossimi anni.
La rielezione di Trump potrebbe dunque comportare, sia sul fronte interno che a livello internazionale, una seria battuta di arresto a partire dall’uscita effettiva degli Usa dall’Accordo di Parigi proprio il 4 novembre, il giorno dopo le elezioni. C’è dunque da sperare in un cambio della guardia. Anche se non è escluso un certo ripensamento di Trump. Alla domanda al Forum di Davos se ritenesse ancora che il cambiamento climatico fosse una bufala, ha risposto “assolutamente no” e si è impegnato a contribuire all’iniziativa di piantare mille miliardi di alberi in questo decennio.
L’Europa infine, che negli ultimi anni aveva visto la propria leadership un po’ appannata, forte della nuova ambiziosa strategia di neutralità carbonica al 2050, potrebbe riacquistare un ruolo centrale nella battaglia climatica. Nel mese di settembre in Germania si terrà un incontro tra UE e la Cina al quale parteciperà lo stesso Xi Jinping.
Insomma potrebbero crearsi le condizioni per una forte sinergia Europa-Cina in grado di orientare la diplomazia mondiale del clima.
Questo articolo e’ apparso sul numero 2/2020 di Micromega “La Terra brucia”