Dopo la sconfitta elettorale del 4 marzo Gianni Cuperlo, già candidato alla segreteria in competizione con Matteo Renzi e poi Presidente del Partito Democratico, scrive di getto In Viaggio, una sorta di dialogo con un (e)lettore di sinistra alla ricerca delle chiavi di lettura per comprendere la ragioni di un tracollo che ha superato le peggiori previsioni. Espunto dall’attualità, si tratta di un libro sul valore della parola. Si apre e si chiude con un riferimento a Balzac sulla possibilità di viaggiare sulle parole. Alla ormai classica esortazione fatti e non parole, Gianni Cuperlo risponde affermando che i fatti vengono dalle parole, e declina un bagaglio di viaggio fatto di otto parole: Speranza, Identità, Libertà, Conoscenza, Partito, Politica, Europa, Sinistra.
La riflessione appare finalmente rivolta a questioni fondamentali, agli elementi essenziali che consentano una ripartenza non effimera, una vera ricostruzione di identità a sinistra, e non la ricerca di un nuovo travaso di voti nel supermercato della proposta politico-mediatica. Si tratta di un tentativo lodevole di riportare al centro le questioni politiche e non i protagonismi personali, con il loro carico polemico. E tuttavia alcuni punti centrali per una riflessione politica sul ruolo della sinistra nella società contemporanea rimangono, tra gli altri, soltanto accennati. Proprio per questo, voglio rimandare alla lettura diretta del libro l’approfondimento di ciò che Cuperlo dice e concentrarmi su ciò che, a mio avviso, dovrebbe dire e ancora non dice, sottolineando tre parole che altrimenti rimarrebbero sullo sfondo, tre capitoli che andrebbero affiancati agli otto già scritti: Ambiente, Scienza (e tecnologia), Cultura. E infine proverò a suggerire una piccola cassetta degli attrezzi da mettere nella valigia di un viaggio verso una sinistra finalmente consapevole del proprio rinnovato e determinante ruolo.
- Ambiente
Il libro sviluppa in più riprese una serie di argomentazioni intimamente connesse tra loro: lavoro, reddito, disuguaglianze, inclusione, cittadinanza, crisi finanziarie, mutamento degli equilibri geopolitici,…ma il quadro di riferimento dello sviluppo sostenibile non emerge. E con l’andare avanti delle pagine mi prende una certa inquietudine, perché la questione ambientale non è oggi uno dei tanti temi sul tappeto, ma, in termini sistemici, è “la questione”. Poi arrivo a pag. 152 e finalmente trovo gli obiettivi ONU dello sviluppo sostenibile, l’impegno nella loro promozione di in Italia di Enrico Giovannini, l’enciclica Laudato sì. Vado sul sito del PD e trovo nella composizione della segreteria nazionale una delega specifica a Stella Bianchi per l’Agenda 2030. Bene, abbiamo un punto di partenza per provare ad espandere una visione comune.
Dico che l’ambiente va posto come fulcro di ogni agenda politica a partire dalla certezza scientifica che un aumento di 2 °C della temperatura media del pianeta Terra a fine secolo non sia più evitabile. Sarà un disastro, ma i 3 – 4 gradi, a cui si arriverebbe senza la frenata drastica nella generazione di gas serra, produrrebbero certamente una catastrofe. Ma quale PIL e ridistribuzione della ricchezza: avremo altro a cui pensare!
E l’aumento della temperatura è solo una parte del problema. Siamo al probabile picco di sfruttamento globale delle risorse (consumiamo quelle rinnovabili in 6 mesi! Ecco perché questa epoca appare come quella di massimo benessere), la popolazione umana aumenta di oltre 80 milioni di individui l’anno, un numero incredibile di specie è minacciato di estinzione. Ogni estate misuriamo record di intensità e durata delle ondate di calore, e rispondiamo installando più condizionatori (e quindi incrementiamo la domanda di energia, i gas serra e, in conclusione, il caldo). E questa macchina di sovrasfruttamento – mentre ammalia le masse con i lustrini del consumismo – alimenta le disuguaglianze: nella sostanza, per fare più ricchi i già ricchi, stiamo trasformando il pianeta in una calda discarica.
Lo scenario è forse “ too big to manage”, è troppo grande da gestire, e forse per questo non ci sfugge nella valutazione dell’impatto delle azioni politiche ed economiche. Azioni che, invece, proprio per il loro impatto sulla sostenibilità globale andrebbero preliminarmente valutate. E le connessioni non sono ovvie. Un esempio? Lasci correre la finanza delle criptovalute e dalle server farm nasce una nuova bocca da sfamare – non prevista nelle proiezioni dei consumi energetici – che richiede tanti kilowattora quanti ne servono a tenere in piedi una nazione…
Tuttavia, negli ultimi anni, un quadro di riferimento sistemico è emerso chiaramente: gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, così come l’enciclica di Papa Francesco, connettono, finalmente in modo strutturale, il tema ambientale a quello della giustizia economica e sociale. Affermano che il pianeta può soddisfare i bisogni di tutti, ma non l’avidità di qualcuno, come già ebbe a dire Mahatma Gandhi. Uno parla a una vastissima comunità di politici, operatori, amministratori, imprese, l’altro a un miliardo di coscienze. Entrambi mettono insieme le 5 P: Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partnership (che tradurrei con solidarietà globale). Non è poco. E’ un programma planetario, di sinistra!
E la sinistra italiana? Già nel 1977 Enrico Berlinguer parla di “contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato”, suggerendo di “abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario”. Considerando superata la fase della ricostruzione del dopoguerra, evidenziava ancora, nel 1979, che “da movimenti di massa e d’opinione che interessano milioni di persone, è posto in discussione il significato, il senso stesso dello sviluppo, o, come veniva recentemente osservato, il che cosa produrre, il perché produrre.” E invece poi vennero gli anni ’80 e fu tutta un’altra storia. Consumismo a go-go. Come abbiamo risposto da sinistra? Quali modelli di sviluppo “sobri”, in grado di soddisfare i bisogni di tutti e di reprimere l’avidità di alcuni, è stata capace di immaginare e di realizzare? Non si è forse appiattita sul modello di sfruttamento capitalistico delle risorse (o alla sua variante cooperativistica), senza comprendere a pieno la spinta “rivoluzionaria” che veniva dall’evidenza dei limiti insiti in uno sviluppo basato sulla crescita continua dei consumi? E oggi non sta, più o meno consapevolmente, aderendo alla teoria del “disaccoppiamento” tra crescita e consumo di risorse, argutamente messa in circolazione e sostenuta dai think-tank finanziati dai grandi player dell’attuale sistema industriale?
Allora nel bagaglio della nuova sinistra metterei la necessità di determinare innovazioni radicali nei modelli economici e di consumo che affrontino congiuntamente il tema della giustizia economica e sociale e della conservazione del pianeta.
- Scienza (e tecnologia)
Cuperlo dedica un capitolo alla “conoscenza”, nel senso dell’accesso al sapere, dell’educazione della formazione . Io credo che vada recuperata, anche in questo caso, una prospettiva più fondamentale di “senso” della produzione di conoscenza, ed una capacità della sinistra di elaborare un proprio pensiero, una propria politica su questo aspetto. La scienza è un prodotto del processo storico-sociale delle società umane. La facoltà di orientare e gestire la produzione di conoscenza (e successivamente le modalità della sua distribuzione) ha sempre rappresentato un fattore competitivo tra le classi sociali e nello scenario geopolitico, e dall’ultimo dopoguerra ha assunto un ruolo centrale e pervasivo nei processi di evoluzione politica, economica e persino etica della società.
Il mondo in cui viviamo, quello che oggi minaccia il lavoro con l’automazione, che ci porta a vivere virtualmente sui social, il mondo del villaggio globale, dominato dalla potenza tecnica, e quindi militare ed economica degli USA, fu teorizzato non da un politico, ma da uno scienziato manager, Vannevar Bush, nel suo rapporto del ’45 a Truman “Science: the endless frontier” (1945). In un articolo dello stesso anno pubblicato su The Atlantic e intitolato “As we may think”, Bush descrive con lucidità visionaria, e in anticipo di mezzo secolo, il mondo interconnesso di Internet, gli ipertesti, la consultazione da dispositivi mobili, l’interazione tra gli uomini e l’avvento di una forma di intelligenza collettiva. Dall’iniziativa politica di Bush nacque la National Science Foundation e vennero 70 anni di supremazia americana, in cui la ricerca fondamentale alimentava la frontiera produttiva e militare. Oggi, tuttavia, il motore di questo processo non è più l’amministrazione federale, o lo è in forma parziale. Compagnie e fondazioni private hanno budget R&D che competono con quelli federali. Queste aziende, e alcuni singoli individui, stanno disegnando il mondo in cui viviamo e in cui vivremo. Decidono le priorità, in base al mercato, alla “sensibilità” di imprenditori e investitori, alle proprie ambizioni, cercano di aggregare consenso sociale, politico ed economico, in una sorta di star system della tecnologia.
Per rispondere a questo predominio oggi americano, forse a breve anche cinese, L’Europa sta sviluppando un suo complesso programma “federale”, che riprende i tratti storici del modello USA. Il sistema non è ottimale ma sta tra le iniziative europee che meglio funzionano. E la sinistra? E la sinistra italiana? Nel nostro DNA dovrebbe stare la gestione democratica del processo scientifico e tecnologico, la sua sottrazione a logiche puramente mercatiste. Serve conoscenza per risolvere problemi che non traggono origine da una domanda mercato, ma dalla società (vedi la voce Ambiente, dove sono proprio le regole del mercato a creare gran parte dei guai). Da sinistra dovrebbe arrivare lo stimolo a maggiori investimenti in sui temi dell’inclusione sociale, sul recupero dei siti inquinati, sulle malattie rare, sui processi di economia circolare, sulle fonti di energia distribuita, sulla creatività che crea lavoro sostenibile e ricchezza diffusa in un mondo ad elevata automazione. C’è da fare rientrare i “cervelli”, è vero, ma a fronte di una chiara definizione di “cosa” vogliamo che facciano, della direzione “politica” che vogliamo dare alla società.
Allora nel bagaglio mettiamo la parola Scienza ed abbiniamola a Democrazia.
- Cultura
Secondo Kant, la “cultura” è la capacità, in un essere ragionevole, di scegliere i propri fini, e quindi di essere libero. La cultura, quindi, è il motore della “libertà”, parola a cui è dedicato il terzo capitolo del libro. Tra il dopoguerra e la fine degli anni ’70, la sinistra italiana ha promosso e coltivato, in vario modo, tutti i canali espressivi della cultura: musica, teatro, cinema, arti figurative, narrativa. Ha consapevolmente fatto della cultura un potente strumento di costruzione del “popolo di sinistra”, di discussione, selezione e promozione dei suoi obiettivi, all’interno di una visione generale del futuro. E’ da lì che viene l’energia che permette il ’68, che alimenta il coraggio di mettere in discussione la struttura stessa della società, di anticipare di tempi, di guardare oltre.
La “consumerizzazione” del processo culturale, la riduzione della cultura a “prodotto” intercambiabile, stagionale, alla moda, dilaga a partire dagli anni ’80 sostenuta dallo sviluppo esponenziale della televisione commerciale. L’impatto è progressivo e devastante. Parafrasando quanto afferma Nietzsche per il diritto (aforisma 459 di Umano troppo umano), abbiamo cessato di avere un senso tradizionale – ossia collegato ad un processo storico – della cultura, e quindi dobbiamo accontentarci di culture arbitrarie, che sono espressione della necessità che esista una cultura. Per capire quanto ci sia di “reazionario” in questo passaggio, dobbiamo tornare a Pasolini. In “La prima rivoluzione di destra” negli Scritti corsari del 1975, scrive :“la restaurazione o reazione reale, cominciata nel 1971-72 (dopo l’intervallo del 1968) è in realtà una rivoluzione. Ecco perché non restaura niente e non ritorna a niente; anzi, essa tende letteralmente cancellare il passato, coi suoi “padri”, le sua religione, le sue ideologie, le sue forme di vita (ridotte oggi a mera sopravvivenza). Questa rivoluzione di destra, che ha distrutto prima di ogni cosa la destra, è avvenuta fattualmente, pragmaticamente, attraverso una progressiva accumulazione di novità (dovute quasi tutte all’applicazione della scienza): ed è cominciata dalla rivoluzione silenziosa delle infrastrutture, […] alle spalle di tutti, la “vera” tradizione umanistica (non quella dei ministeri, delle accademie, dei tribunali e delle scuole) viene distrutta dalla nuova cultura di massa e dal nuovo rapporto che la tecnologia ha istituito – con prospettive secolari – tra prodotto e consumo.”
E intanto, in questo scenario, nelle periferie si saldano la disperazione e il lusso, il senso di emarginazione e l’ambizione di non essere esclusi dalla grande festa delle elite. Una sintesi spesso anche provocatoriamente rappresentata dalla nuove star della musica leggera, sostenute dal sistema dei social media. Un fenomeno salutato con interesse da alcuni analisti, quasi fosse in grado di esprimere nuove forme di rivendicazione sociale. E invece noi vediamo in esso, l’aggravarsi di un tracollo culturale e politico. Se non capiremo questo, se non sapremo sottrarci alle dinamiche “usa e getta” di mercificazione del processo culturale, se non ritroveremo valori fondativi da proporre con rigore e coerenza nei centri e nelle periferie, non potremo riprendere un “discorso” di sinistra e ancora meno ricostruire un “popolo” di sinistra.
Come fare? Secondo Edgar Morin “soltanto un universalismo fondato sulla solodarietà e sulla fratellanza potrà far fronte a questa deriva. Bisogna ripartire dalle scuole, dall’educazione dei giovani”. E intanto dobbiamo cercare e dare spazio, come ci insegna Italo Calvino, a “ciò che inferno non è”. Scegliere.
Allora, mettiamo nello zaino quelle che ci appaiono come le tessere di un puzzle da comporre: l’inno alla bellezza di Peppino Impastato, la bambina senza paura di fronte al toro di Wall Street di Kristen Visbal, la musica come discorso partecipato di Ezio Bosso, le cose che ci fanno stare bene di Caparezza, le lavagne visionarie di Joseph Beuys, i graffiti di Banksy e della scuola di Palermo, il paesaggio cantato da Franco Arminio e la croce di Lampedusa di Francesco Tuccio… Perché di tutto questo si dovrà nutrire la nuova sinistra.
Voglio, in conclusione, proporre come appendice alla lettura del libro, sei attrezzi fondamentali portare in viaggio. Sono ispirati dal manuale Six Foundations for Building Community Resilience edito dal Post Carbon Institute, e sono a mio parere perfettamente applicabili al percorso di ricostruzione della nuova sinistra come una comunità resiliente.
Persone. Bisogna cercarle, trovarle e connetterle andando fuori dal recinto, dal mondo conosciuto e oramai ristretto della partecipazione politica attiva. Let’s “walk on the wide side” – esploriamo le zone più “selvagge” del pensiero critico, cerchiamo idee nuove in luoghi dove il “nuovo ‘68” qualcuno ha provato a farlo. Andiamo oltre la distrazione e la supponenza che ha portato a prendere le distanze dalla critica alla globalizzazione finanziaria del popolo di Seattle, Porto Alegre, Occupy Wall Street, da tanti movimenti e istanze che da anni non trovano uno sbocco politico coerente.
Pensiero sistemico. Tutto è connesso. Non puoi affrontare il problema della povertà e della giustizia sociale, se non comprendi i processi di controllo delle risorse, le infrastrutture finanziarie, i sistemi culturali che alimentano e giustificano le differenze. Uniamo rigore scientifico e slancio umanistico. Rimettiamoci a studiare, discutere e immaginare futuri desiderabili – senza preconcetti e senza paura delle contraddizioni. Proviamo a connettere punti di vista e discipline diverse per comprendere il mondo e disegnare nuove forme di convivenza, di economia, di vita.
Adattabilità. La nuova sinistra dovrà avere capacità di continuo adattamento al mutare delle condizioni sociali ed economiche. Per questo servono nuovi processi strutturati di riflessione sulla realtà, condotti da una nuova classe intellettuale impegnata ad osservare il contesto ed a suggerire i giusti mutamenti di giusta rotta che permettano di continuare a perseguire gli obiettivi. Uomini, non algoritmi.
Trasformabilità. Le forme organizzative della nuova sinistra dovranno consentire alla nostra comunità di mutare assetto, e persino aspetto, senza che per questo venga dispersa l’identità ed il senso di direzione. Si tratta di un ribaltamento di prospettive, una terapia contro la “liquidità”: deve essere la sostanza a dominare sulla forma.
Sostenibilità. La nuova sinistra dovrà trovare le forme di autofinanziamento che ne garantiscano la forza e l’indipendenza. Dobbiamo rigenerare l’ecosistema fatto di attività politiche, di servizio, economiche, le reti di collaborazione con altre comunità, una rinnovata capacità di sostentamento delle attività politiche fondata sulla partecipazione popolare.
Coraggio. Il viaggio che vogliamo intraprendere sta nello spazio ristretto tra il probabile, e il possibile, per dirla con Hirschman. Uno spazio che richiede il coraggio del dubbio, dell’invenzione e della critica: ecco, metterei nello zaino anche Hirschman e le sue coraggiose pratiche di auto-sovversione.
E in questo spazio di manovra, invece di combatterli, i tanto temuti cigni neri di Taleb, cerchiamo di allevarli, sono la nostra speranza di sfuggire all’inesorabile ed onnisciente algoritmo degli uomini-dei con cui il libro si chiude. Facciamo accadere l’imprevisto in un sistema che farebbe senz’altro a meno della sinistra e di noi tutti. Anzi, direi che è proprio la ricerca del Cigno Rosso la vera ragione del viaggio che Cuperlo ci propone di intraprendere.