Qual è il menu di oggi? È una domanda che faremmo bene a non confinare alla gastronomia, se ci sta a cuore il futuro del pianeta e nostro, perché il settore agricoltura e allevamento è responsabile di circa un sesto delle emissioni globali di gas di serra. Cioè per ogni grado in più di riscaldamento globale, un sesto di grado è dovuto alla produzione di quello che mangiamo. Non è poco (molto superiore alle emissioni del parco edilizio mondiale) e, – ci dice la FAO – il maggiore imputato è l’allevamento, che è causa dell’80% delle emissioni dovute alla produzione di alimenti. Il contributo maggiore alle emissioni di gas climalteranti causate dall’allevamento viene dai bovini, che contribuiscono per quasi due terzi, il 61% (40% per la produzione di carne e 21% per la produzione di latte), principalmente a causa del metano emesso dalla fermentazione enterica; seguono i maiali (9%) e il pollame (8%). Per avere un’idea, a ogni kg di carne bovina è associata una produzione di gas di serra equivalente a 26 kg di CO2, corrispondente alle emissioni causate da un viaggio di 150 km con un’auto di media cilindrata; a un kg di legumi, che pure forniscono proteine, è invece associata una produzione di gas di serra equivalente a 1,7 kg di CO2, quindici volte di meno. Inoltre, per produrre 1 kg di carne bovina si usano 18.800 litri di acqua, mentre per produrre 1 kg di legumi ne occorrono 2.710, sette volte di meno.
Quindi, a seconda di cosa mangiamo diamo un contributo più o meno grande al riscaldamento globale e all’esaurimento delle risorse naturali. Secondo uno studio recente, una dieta equilibrata in termini di proteine e carboidrati a base di carne implica emissioni equivalenti a 4,1 kg di CO2 al giorno per persona; una vegana, in cui le proteine vengono esclusivamente dai legumi, solo 1,7 kg, due volte e mezza in meno; una dieta vegetariana, in cui le proteine vengono oltre che dai legumi anche da latticini e uova, comporta emissioni equivalenti a 2,3 kg di CO2, poco meno della metà di una a base di carne; una dieta sostenibile, come la mediterranea, in cui le proteine provengono da un mix di legumi, latticini, carni prevalentemente bianche e pesce, comporta emissioni equivalenti a 2,8 kg di CO2, circa una volta e mezza meno di una a base di carne.
Secondo l’attuale tendenza, che vede i paesi in via di sviluppo allinearsi progressivamente al modello culturale, e quindi alimentare, degli Stati Uniti, con diete sempre più ricche di carne, le emissioni di gas di serra nel settore agricoltura quasi raddoppieranno entro il 2070, rendendo di fatto impossibile contenere il cambiamento climatico anche con interventi drastici in tutti gli altri settori .
Ma non c’è solo questo. Dato che per coltivare i mangimi si utilizza il 33% di tutti i terreni produttivi e l’80% di tutta la terra coltivabile, con l’aumento del consumo di carne resterà sempre meno terra destinata alla produzione di cibo per l’alimentazione umana (a meno che non si abbattano foreste per trasformarle in terreno agricolo; cosa che aggraverebbe il cambiamento climatico). Il tutto aggravato dal fatto che la popolazione mondiale nel 2050 raggiungerà i 9 miliardi di persone. La Terra, allora, non sarà più in grado di sfamare tutti i suoi abitanti (umani), proprio come Malthus aveva predetto, sia pure in un altro contesto.
Poi c’è il tema della salute. Una alimentazione a base di carni rosse (manzo, maiale, vitello, agnello, montone, cavallo o capra), e soprattutto di carni lavorate (salate, essiccate, fermentate, affumicate, trattate con conservanti) aumenta il rischio di tumore al colon, oltre che di malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2.
A ciò va aggiunto il rischio che deriva dagli antibiotici che vengono regolarmente somministrati agli animali allevati per aiutarli a crescere rapidamente nelle condizioni di sovraffollamento e di sporcizia in cui vivono. Infatti, a causa delle dosi massicce che vengono loro somministrate, questi animali finiscono per sviluppare batteri resistenti agli antibiotici, che attraverso varie vie in alcuni casi finiscono in organismi umani, che sviluppano infezioni resistenti agli antibiotici. Nella sola UE, per esempio, queste infezioni provocano 25.000 decessi all’anno e una spesa sanitaria di 1,5 miliardi; a scala globale si arriva a 700.000 decessi all’anno.
Infine, a parte gli effetti sul cambiamento climatico e sulla salute dell’uomo, oggi l’allevamento ha anche un enorme impatto sulla salute della biosfera, e non solo per effetto dell’inquinamento dell’acqua e del suolo di cui è causa. Siamo pure arrivati all’impressionante paradosso che il 70% di tutti gli uccelli e il 60% di tutti i mammiferi esistenti sulla terra sono allevati: la vita animale naturale è diventata marginale.
Dunque, la salute del pianeta (riduzione della emissione dei gas climalteranti e dell’esaurimento delle risorse) e la salute degli uomini richiedono la stessa strategia, come è evidenziato dalla doppia piramide sviluppata dal Barilla Center for Food and Nutrition.
Mangiare meno carne (specialmente quella rossa) e latticini da latte vaccino è una assoluta necessità se vogliamo limitare il riscaldamento globale e avere abbastanza cibo per nove miliardi di persone nel 2050; in più ci permette di stare meglio in salute, ridurre le spese sanitarie e il nostro impatto sulla biosfera.
Viene allora da chiedersi: se le cose stanno così – e stanno così – come è possibile che non si faccia di tutto per diminuire i consumi di carne, e che anzi ci sia un continuo aumento in tutto il mondo?
La risposta è che la riduzione del consumo di carne si scontra non solo con fattori culturali e abitudini alimentari, ma anche e soprattutto con gli interessi dell’oligopolio del sistema di produzione. Negli Stati Uniti, paese di grandi consumatori di carne, per esempio, quattro aziende (dette Big Meat) producono l’85% di tutto il manzo: la Tyson Foods, la JBS, la Cargill e la Smithfield Foods. Per avere un’idea, Tyson Foods macella 135.000 capi di bestiame alla settimana, insieme a 391.000 maiali e uno stupefacente 41 milioni di polli. Il fatturato della Tyson relativo alla sola carne bovina commercializzata negli Stati Uniti è di 12,7 miliardi di dollari all’anno, ed è seguito dalla brasiliana JBS con 9,2 miliardi.
Preoccupato dal dominio oligopolistico della carne, nel 2010-2011 Barak Obama cercò di riformare il settore al fine di rafforzare la supervisione antitrust. I lobbisti di Big Meat al Congresso riuscirono a far fallire l’iniziativa.
Solo una forte azione di contrasto da parte di una opinione pubblica consapevole può cercare di invertire la tendenza alla crescita dei consumi di carne. Una opinione pubblica che sia anche consapevole del fatto che il tanto decantato, benemerito, vantaggio sociale che l’allevamento intensivo ci ha dato, permettendoci di avere la carne – e quindi le proteine animali – a basso costo, si è realizzato applicando il noto modello della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite, cioè facendoci pagare su altri capitoli di spesa la differenza fra il costo che oggi ha una fetta di carne o una coscia di pollo rispetto al costo che aveva prima dell’avvento degli allevamenti intensivi, quando si mangiava carne solo nei giorni di festa. Paghiamo noi, con le nostre tasse, i costi derivanti dagli effetti devastanti del cambiamento climatico (per quasi un sesto imputabili all’allevamento) e le spese sanitarie per curare le malattie indotte dal consumo eccessivo di carne, per non dire altro. Ecco perché la carne costa poco, apparentemente. Se il costo degli “effetti collaterali” venisse imputato alle fette di carne o alle cosce di pollo, il loro costo si allineerebbe a quello che aveva una volta, o ci si avvicinerebbe molto.
Che strumenti ci sono per diminuire il consumo, e quindi la produzione, di carne? Una strada è l’acquisizione della consapevolezza del danno che un eccessivo consumo fa alla salute del pianeta e a quella dell’uomo, e ci sono segnali in questa direzione: cresce il numero dei vegetariani ma soprattutto cresce il numero di quelli che si orientano a mangiare carne più di rado e solo se da allevamenti non intensivi. Ma non basta. Non abbiamo abbastanza tempo per aspettare che la trasformazione avvenga spontaneamente, dal basso, seppure avverrà: la catastrofe dovuta al procedere del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse arriverebbe prima. Occorre una qualche azione politica che acceleri il processo già in atto e blocchi le tendenze che vanno in direzione contraria.
Si potrebbe, per cominciare, tassare le carni e i latticini proporzionalmente al loro impatto sull’ambiente e sulla salute (quindi tassando meno o non tassando gli animali allevati in modo sostenibile), allo stesso tempo sovvenzionando i prodotti vegetali freschi con parte del ricavato della tassa, visti i loro positivi effetti sulla salute. Questa è l’ipotesi esplorata da un gruppo di ricerca dell’Università di Oxford, che è arrivato alla conclusione che in questo modo è possibile ridurre di quasi il 15% le attuali emissioni dovute alla produzione agricola e all’allevamento e al tempo stesso salvare circa mezzo milione di vite. Naturalmente, l’entità della riduzione dipende dalla politica di tassazione adoperata, e si può fare di più di quanto proposto nello studio. Intanto, in attesa che qualcosa si muova nel mondo della politica, cominciamo a mangiare meno carne, ci conviene e ci fa star meglio. E prepariamoci a una lotta dura: le corporation della carne non cederanno senza combattere, e lo stesso faranno tutti allevatori intensivi che si vedrebbero danneggiati, mettendo in dubbio gli “effetti collaterali”, esattamente come hanno fatto per anni l’industria del tabacco e quella del petrolio.