Scriveva, nel 1930, John Maynard Keynes, il grande economista, nel suo “Prospettive economiche per i nostri nipoti”:
È vero che talvolta i bisogni degli esseri umani appaiono insaziabili. Ma occorre tenere presente che si suddividono in due categorie – quelli assoluti, che emergono in qualunque situazione i nostri simili si trovino a vivere, e quelli relativi, che si manifestano solo se la loro soddisfazione ci pone, o ci fa sentire, al di sopra dei nostri simili. I bisogni del secondo tipo, quelli generati dal desiderio di superiorità, crescono insieme al tenore di vita, e possono in effetti diventare insaziabili.
I bisogni assoluti sono aumentati nel corso dei due ultimi secoli. All’inizio del XX secolo erano un tetto, due/tre pasti al giorno, del vestiario (e lo sono ancora per miliardi di persone). Poi ne sono sorti dei nuovi, quali l’elettricità, il riscaldamento d’inverno, il frigorifero, il televisore….e, ultimo, lo smartphone.
Si tratta di un aumento limitato di bisogni, ad ogni modo. I bisogni relativi, invece, sono aumentati a dismisura, ed è una continua gara a chi cerca di indurne di più.
Vance Packard è stato un precursore nel denunciare il complotto del sistema economico-industriale contro il cittadino indifeso, il consumatore: il povero scoiattolo che nella sua gabbia è costretto ad affannarsi per farla girare, cioè fare girare l’economia. Nel suo “I persuasori occulti”, del 1957, nel pieno del “boom” postbellico americano, Vance sintetizza la situazione citando “Christianity and Crisis “, una rivista della chiesa protestante, in cui si commentava l’economia in continua espansione degli USA, mettendo in evidenza la forte pressione esercitata sugli americani al fine di “consumare, consumare e consumare”, aggiungendo che le dinamiche di un sistema in continua espansione ci spingono a essere “persuasi a consumare per soddisfare le esigenze del processo produttivo”.
E come si persuade la gente a consumare? Lo sappiamo benissimo, con la pubblicità. La pubblicità, sulla stampa, esisteva già nel XIX secolo, e anche prima, ma svolgeva un altro ruolo: quello di informare dell’esistenza di un nuovo prodotto. Certo, anche allora c’era chi reclamizzava unguenti portentosi e altre diavolerie, ma erano iniziative individuali e i messaggi erano piuttosto naïve. Le cose cambiano radicalmente negli anni ’50 del XX secolo, quando il sistema produttivo americano decise di investire cifre colossali in un ambito di ricerca emergente, che vedeva impegnati psicologi e sociologi: la “motivational research” (ricerca motivazionale), definita dal Collins Dictionary come “l’analisi scientifica e sistematica delle forze che influenzano il comportamento delle persone, al fine di controllarne le decisioni”. Cioè l’industria americana investì milioni di dollari allo scopo di trovare il modo di manipolare le persone spingendole a desiderare cose che neanche sapevano che esistessero, al fine di costringerle ad acquistarle. E il modo, anzi i modi, si trovarono.
Una delle sfide più grandi e problematiche che i “motivational researchers” avevano da affrontare era il fatto che la maggior parte degli americani possedeva stufe, macchine, televisori, vestiti, ecc., perfettamente utilizzabili. Aspettare che quei prodotti si consumassero o diventassero fisicamente obsoleti prima di sostituirli, per i produttori era intollerabile. Come fare? E qui la risposta dei ricercatori fu tale da lasciare gli uomini d’affari perfettamente soddisfatti, perché avevano speso bene il loro denaro: l’obsolescenza psicologica, raffinata e perfida evoluzione della cosiddetta obsolescenza programmata.
Nel 1932, ancora nel pieno della “Grande Depressione”, un agente immobiliare, Bernard London, scrisse un articolo dal titolo: “Ending the Depression Through Planned Obsolescence”, “Finire la depressione attraverso l’obsolescenza programmata”. Nell’articolo London affermava che per rimettere in moto l’economia bisognava sostenere la produzione di beni, e per fare questo lo stato avrebbe dovuto imporre a tutti i prodotti una vita limitata, per legge, e costringere i cittadini a sostituirli periodicamente. La proposta non ebbe seguito. L’idea, però, germogliò autonomamente, e molte imprese iniziarono a produrre oggetti progettati e costruiti in modo tale che dopo un certo periodo di tempo, programmato, si guastassero, diventando così inservibili e costringendo alla sostituzione. Il concetto, negli anni, fu ulteriormente raffinato e oggi non soltanto gli oggetti di consumo hanno una vita ridotta, ma sono anche progettati in modo da non essere riparabili.
Rendere i prodotti poco durevoli, era una buona idea, ma si scontrava col fatto che non si poteva accorciarne oltre un certo limite la durata: non sarebbe stato accettato. E così si pensò a quella che viene definita “obsolescenza psicologica”, cioè rendere un oggetto obsoleto in quanto non più desiderabile, perché ce n’è un altro – più desiderabile – che svolge le stesse funzioni. Per fare questo bisognava andare a fondo nell’animo delle persone, e a questo servì la Motivational Research.
La cultura tradizionale, e le ristrettezze patite durante la guerra, davano alla sobrietà, alla condanna dello spreco, un valore forte. Acquistare un oggetto non necessario faceva scattare nelle persone un senso di colpa. Come uscire da questo cul-de-sac? Con raro cinismo lo spiega Ernest Dichter, presidente dell’Institute for Motivational Research, Inc.:
“Uno dei principali compiti del pubblicitario in questo conflitto tra piacere e colpa non è tanto vendere il prodotto quanto dare il permesso morale di divertirsi senza sensi di colpa”.
Dunque il problema che l’obsolescenza psicologica doveva risolvere era che la vendita di prodotti per un valore di miliardi di dollari dipendeva in larga misura dalla capacità di manipolazione dei nostri sensi di colpa, delle nostre ansietà, ostilità, senso di solitudine, tensioni interne. Un caso tipico è il senso di colpa delle casalinghe, un mercato potenziale sterminato. Esse, invece di essere grate per i meravigliosi vantaggi, quasi delle benedizioni, che i nuovi prodotti offrivano loro migliorandone la qualità della vita, reagivano in molti casi considerandoli come minacce ai loro sentimenti di creatività e utilità. Il “creativo” di un’agenzia pubblicitaria ha riassunto la triste (per lui) situazione con queste parole:
“Se dici alla casalinga che usando la tua lavatrice, asciugatrice o lavastoviglie, può essere libera di giocare a bridge, sei finito! La casalinga di oggi si sente già in colpa per il fatto che non sta lavorando duramente come sua madre e le lisci il pelo nel verso sbagliato quando le offri più libertà. Devi invece mettere in evidenza che gli elettrodomestici le permettono di avere più tempo da passare con i suoi figli e di essere una madre migliore.”
Anche gli uomini furono oggetto di un nuovo tipo di assalto, dato che erano estremamente riluttanti a cambiare abito se non era consumato. “Il business dell’abbigliamento maschile soffre di una mancanza di obsolescenza”, dicevano gli uomini del marketing. “Gli uomini americani devono essere resi sensibili alla moda”. E così fu.
E poi ci sono le menti deboli dei bambini e degli adolescenti da manipolare. Riferisce ancora Packard: “una ditta specializzata nella fornitura di materiale educativo agli insegnanti fece questo appello ai commercianti e ai pubblicitari: Le menti ancora plastiche dei giovani possono essere modellate per desiderare i vostri prodotti! Nelle scuole americane ci sono quasi 23 milioni di ragazze e ragazzi. Questi mangiano cibo, indossano abiti, usano il sapone, sono consumatori oggi e saranno gli acquirenti di domani. C’è un vasto mercato per i vostri prodotti. Vendete a questi bambini e ragazzi i prodotti col vostro marchio e loro insisteranno con i loro genitori di non comprarne altri…”
In questo le cose sono cambiate, da allora, nel senso che non è il frigorifero a destare sensi di colpa e la sobrietà non è più un valore. Nulla è cambiato, invece, nel frequentatore di un supermercato o un centro commerciale. Una ricerca condotta dalla DuPont negli anni ’50 rivelò che la maggior parte degli acquirenti non si preoccupavano di fare una lista di ciò che avevano bisogno di comprare: l’aveva solo uno su cinque; sette su dieci degli acquisti erano decisi sul posto, acquistando d’impulso. E a scatenare l’impulso ci pensa il packaging: confezioni multicolori, attraenti, che richiamano l’attenzione. Spesso alla confezione si dedica una ricerca e una pianificazione più attenta che non al prodotto in essa contenuto. Non importa cosa c’è dentro: è il fuori che conta. Da qui deriva anche un significativo aumento dei rifiuti: il packaging, per l’appunto.
Da questo punto in poi nulla è in fondo cambiato, se non il fatto che i metodi di manipolazione dei nostri cervelli si sono fatti più raffinati, e i mezzi con cui arrivare a noi si sono ampliati: non più solo radio, televisione, pubblicità su giornali e riviste, cartelloni, ma anche internet, ora. Ormai, grazie ai cookies e ai social media la pubblicità non è più mirata a categorie di persone, ma a ciascun individuo. Si costruisce un profilo di ciascuno di noi, sulla base delle preferenze mostrate nel navigare in rete, e si attiva una pubblicità personalizzata, anticipando desideri che non abbiamo neanche portato al livello della coscienza, o meglio, creando desideri artificiali basati sulle nostre caratteristiche psicologiche, sulla nostra storia personale e poi trasformando i desideri in bisogni. Il livello di manipolazione dei nostri cervelli è ormai quasi da fantascienza. Il tutto per fare di noi consumatori perfetti. Hai comprato libri sull’ambiente, hai frequentato siti di escursioni in montagna, hai cercato, per curiosità, notizie sull’auto elettrica, ed ecco che ti arriva la pubblicità di un SUV ibrido che, oltre tutto, ti metterà al di sopra dei tuoi colleghi d’ufficio. E praticamente non ti costa niente: tutto a rate di cui neanche ti accorgerai, e senza interessi.
Un americano medio oggi consuma il doppio rispetto a 50 anni fa. E 50 anni fa consumava il doppio rispetto a poco prima della seconda guerra mondiale.
L’americano medio vede più pubblicità in un anno di quanto 50 anni fa ne vedesse in tutta la vita (e senza grande errore questo dato si può estendere all’Europa)
La famiglia media degli Stati Uniti ha 300.000 oggetti, dalle graffette alle assi da stiro.
Già sessanta anni fa quasi due quinti delle cose che l’americano medio possedeva erano cose non essenziali per il suo benessere fisico, erano oggetti opzionali o di lusso. C’è da dubitare che le cose oggi siano migliorate.
Un americano su dieci affitta un deposito, per conservare la crescente marea di oggetti inutilizzati che non entrano più in casa. I depositi costituiscono il segmento del settore immobiliare commerciale in più rapida crescita negli ultimi quarant’anni.
Una ricerca condotta in Gran Bretagna ha messo in luce che un bambino di 10 anni possiede 238 giocattoli, ma gioca solo con 12 al giorno. Mettendola in termini economici, il bambino possiede giocattoli per un valore totale di 7.000 sterline (7900 €) ma gioca solo con giocattoli per un valore totale di 330 sterline (372 €).
La donna americana media possiede 30 completi di vestiario – uno per ogni giorno del mese. Nel 1930 ne possedeva 9. La famiglia media americana spende 1700 dollari all’anno per il vestiario.
Gli americani spendono ogni anno 1.200 miliardi di dollari per beni non essenziali – cioè per beni di cui non hanno bisogno. Questa cifra corrisponde a circa il 12% della spesa totale; negli anni ‘60 ammontava solo al 4%.
Per ogni bidone della spazzatura che un cittadino riempie, se ne sono riempiti 70 a monte, per produrre quelle cose di cui si sta liberando.
E americani, ormai da tempo, siamo anche tutti noi, e ora pure circa la metà di quasi un miliardo e quattrocento milioni di cinesi. E si fa di tutto per contagiare gli altri miliardi che a fatica cercano di uscire dalla povertà, in Africa, in Asia e in America Latina. Tante marionette manipolate dall’avidità di pochi. E non si tratta solo della nostra dignità di uomini (essere definito ”consumatore” è un insulto, e non ce ne accorgiamo), ma del nostro futuro, perché sono le radici del consumismo che dobbiamo estirpare se veramente vogliamo fermare il cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse. Ed estirpare il consumismo significa trasformare radicalmente l’attuale modello di sviluppo [Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’];
“Dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico.”
Condivido tutto e credo che il modello urbano di vita contribuisca molto. Mi sono accorto che divenendo residente rurale e lavorando anche la terra oltre che al computer e girando con il camper il modello di vita cambia. Dobbiamo essere capaci di tenerci molto occupati e diversificare il nostro spazio-tempo pensando al rapporto mente-corpo e all’unico spreco quello della conoscenza e della produzione culturale. Il resto conta sempre meno.