“Le rivoluzioni le fanno i popoli, non le tecnologie. Però queste, a volte, aiutano.” titolava Varieventuali otto anni fa. Era il momento delle cosiddette “primavere arabe” e lanciava un messaggio post-pessimista “… Forse per molti governi autoritari che controllano interi paesi con la corruzione, il potere dei media, l’abuso della religione e l’uso della forza di eserciti di mercenari, è arrivato il momento della resa dei conti. Intere popolazioni si ribellano a condizioni di vita inaccettabili e non sopportano più la mancanza di libertà.”
L’articolo si concentrava in particolare sul ruolo svolto da Internet: “Le nuove tecnologie, dotando questi giovani di computer tascabili in grado di trasmettere voce, suoni, immagini, video, permettono l’aggregazione dal basso di una moltitudine di persone che in pochi istanti si auto-organizzano formando reti senza un centro che comunicano con tutto il pianeta. Certo, i governi potranno tentare di fermare questi ‘sciami’, ordinando alle compagnie telefoniche di chiudere Internet, ma fino a quando?” e concludeva con un accenno al ruolo positivo della combinazione di energie giovani e tecnologie: “… il lavoro in rete dei giovani di questi paesi ha sicuramente aiutato a preparare il terreno di queste rivolte. Le rivoluzioni le fanno i popoli, non le tecnologie. Però queste, a volte, aiutano.”
Cosa è successo
Negli otto anni che ci separano da Tahir Square sono successe molte cose: le primavere arabe non hanno fatto fiorire società più giuste e i poteri forti hanno imparato molto velocemente a controllare la rete.
La possibilità di raccogliere immense quantità di dati personali permette di profilare molto precisamente le persone e di esporle a contenuti “su misura” (micro-targeting), di esercitare un controllo così capillare che nemmeno la distopia di Orwell in “1984” riuscì a immaginare. Il micro-targeting, unito a sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale operanti 24 ore su 24, crea una bolla virtuale dove le persone rischiano di perdere la dimensione sociale della realtà, esponendole a contenuti sempre più vicini ai propri desideri (e alle proprie vulnerabilità).
Il modello di business stesso alla base delle cosiddette “piattaforme neutrali” richiede di tenere agganciati sempre più consumatori per sempre più tempo. Lo scopo è massimizzare il profitto, vendendo pubblicità a imprese che vogliono a loro volta avere accesso a platee sempre più grandi e “precise” di potenziali clienti. Dal punto di vista degli utenti, l’accesso gratuito a questi servizi in realtà si paga con moneta molto pregiata: i propri dati, il proprio tempo, la propria attenzione e, cosa più delicata, la fiducia!
Gli algoritmi che elaborano i dati dei milardi di persone connesse si calibrano in continuazione diventando sempre più precisi e “avvolgenti”, offrendo contenuti sempre più personalizzati. Più si è connessi, più dati vengono accumulati, più la calibrazione diventa precisa: siamo al machine learning, le tecnologie dell’informazione non incorporano più il valore dell’autonomia (del personal computing, dove memoria e elaborazione erano in mano agli utenti, do you remember Olivetti P101?) ma quello dell’eteronomia del cloud computing (dove memoria e elaborazione sono dall’altra parte della rete).
Per tenere “agganciati” sempre più consumatori per sempre più tempo gli algoritmi sono ormai progettati appositamente per creare dipendenza (addiction-by-design) spingendo le persone verso contenuti sempre più estremi: sommersi da tsunami di bit e flussi ininterrotti di informazione l’attenzione degli umani diventa il “petrolio” del XXI secolo!
I cosiddetti “titani del Web” – Alibaba, Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft, Tencent – secondo la rivista Forbes, sono diventate le più grandi imprese del pianeta: il capitalismo digitale del XXI secolo si basa sul “petrolio” del XXI secolo.
L’immenso potere centralizzato in questi punti di accumulazione (di dati e denaro) rischia di plasmare in modo incontrollato la società, diventa il “lato oscuro” del digitale. Rischia di rompersi il tessuto sociale, la “social catena” della “Ginestra” di Leopardi (1836) che permette agli umani di sopravvivere e fornisce di senso le loro vite. Rischiano di scomparire gli elementi di base della democrazia in un “mercato elettorale” dove vince chi ha la macchina marketing più potente: se chi paga è un candidato o un partito durante una campagna elettorale, come nel recente caso della società informatica Cambridge Analytica coinvolta nelle elezioni di Trump negli USA, la sua pubblicità riesce a condizionare in modo capillare l’opinione pubblica, a egemonizzarne il mindshare. Se il tempo, l’attenzione e la fiducia sono il “petrolio” del XXI secolo, il devastante impatto che la filiera del petrolio ha avuto sul pianeta, stavolta si sposta, ora il controllo dell’infosfera rischia di avere un impatto tremendo sulla democrazia.
I miti da sfatare
Per riuscire a guardare in avanti è utile affontare alcuni miti.
Uno di questi è il mito della democrazia elettronica, della completa disintermediazione, dove per partecipare basta un click sulla tastiera. Tutto questo rischia di far scomparire totalmente i “corpi intermedi”, i luoghi di incontro anche fisico che, se da una parte potevano rappresentare dei “filtri” di potere, dall’altra fornivano però anche barriere contro la disinformazione, uno strumento per confrontarsi con i propri simili, per costruirsi un codice di interpretazione della realtà in una comunità reale. Sul Web la democrazia rischia di diventare una sommatoria di tante solitudini. Nelle comunità virtuali ormai molti interventi sono generati da automi programmati!
Altro mito è quello della neutralità delle piattaforme: il loro modello di business di fondo è basato sulla pubblicità, sulla cattura e sul tenere agganciato il maggior numero di “eyeball“; se i punti di intermediazione del passato avevano dei limiti, i “nuovi intermediari” tecnologici vivono alimentando la polarizzazione che rischia di portare al cinismo, all’odio.
Infine il mito della molteplicità delle opinioni in rete: da una parte è vero che la rete fornisce accesso a sterminate quantità di contenuti e di posizioni, dall’altra l’esposizione dei propri argomenti in rete avviene in un teatro particolare, non avviene con il tempo e la calma che permettono di confutare e discutere. La polarizzazione è immediata, come viziata da una specie di “effetto stadio”, le opinioni vengono esposte più per rafforzare i “follower” che per dialogare con i dubbiosi, o con altri che hanno posizioni diverse, finendo come i cori contrapposti allo stadio. L’appartenenza ad uno schieramento diventa più importante del confronto con altre idee. In rete la merce più popolare diventa l’odio, incendiario per definizione.
Che fare
A livello politico, se l’informazione non è più accesso alla conoscenza, ma è diventata merce da vendere, allora anche i modelli di business dei titani del Web dovranno essere messi in discussione e l’unica scala adeguata è quella globale. Forse è arrivato il tempo di definire un Internet Bill of Rights, una costituzione per Internet, come raccomandava Stefano Rodotà: senza regole vince il più forte, anche in rete (Rodotà, 2007).
A livello di imprese, persino i fornitori delle cosiddette “piattaforme neutrali” si stanno rendendo conto delle drammatiche capacità di condizionamento che hanno messo in mano ai poteri forti. Il 9 Aprile 2018, di fronte alla Commissione del Congresso degli Stati Uniti – che indaga sulla diffusione di notizie false (fake news), incitamento all’odio (hate speech), vendita di dati personali in aperta violazione delle leggi sulla privacy (data leaks), sul ruolo di potenze straniere che usano la rete con false credenziali (trolls) – Mark Zuckerberg, l’amministratore delegato di Facebook, si scusa: “I am sorry“. Forse in questa ammissione implicita vi è la presa di coscienza dell’errore di fondo che molti tecnologi fanno: il considerare la tecnologia neutra. La tecnologia non è mai neutra, tecnologia e società si plasmano a vicenda (co-shaping). Possono le imprese high-tech crescere ancora a prescindere dal contesto, dalle immense disuguaglianze sociali e dai drammatici cambiamenti climatici che incombono sul pianeta? Tim O’Really uno dei più innovativi imprenditori dell’informatica, nel suo intervento alla conferenza annuale provoca la platea: “… nel 2018 crediamo ancora che sia accettabile per le imprese di massimizzare i loro profitti a prescindere dalle conseguenze sociali, ambientali e umane” (O’Really, 2018).
Al livello dei tecnici, forse è iniziato un risveglio delle coscienze persino in Silicon Valley, come dimostrano le ripetute dimissioni di molti ingegneri informatici che non dicono più “I’m just an engineer” (alimentando la propria illusione di neutralità) ma ammettono le proprie responsabilità come progettisti. Oppure il crescente rifiuto, sulla base di preoccupazioni etiche, di offerte di lavoro provenienti dalle più prestigiose imprese high-tech (Hsu, 2018). Significativa la storia di Justin Rosenstein, l’inventore del famoso pollice “like“, che ammette di aver contribuito alla creazione di una distopia di manipolazione totale in un’intervista al Guardian (Lewis, 2017). Nel frattempo tra i computer professional emerge la discussione attorno alla necessità di un codice deontologico: un code-of-ethics per informatici è stato aggiornato proprio quest’anno (ACM, 2018). Nelle scuole di ingegneria di tutto il mondo emerge l’urgenza di una formazione per le giovani generazioni di tecnologi e di ingegneri che prepari non solo persone esperte e appassionate di innovazione ma persone che siano anche consapevoli dello spaventoso impatto sociale che le tecnologie dell’informazione hanno su tutti noi e sulla democrazia (Singer, 2018).
A livello di società in generale, come tutte le forme di dipendenza, forse è arrivato il momento di educare a ridurre l’uso dei social network: un mese disconnessi raccomanda la Royal Public Health Society nel Regno Unito, preoccupata dall’impatto dell’uso compulsivo della rete sulla salute mentale dei giovani (BBC, 2018). Diventa urgente educare i più giovani all’uso responsabile delle tecnologie in rete. A questo proposito è molto utile il decalogo “Muri mediatici, industria dell’odio, buone pratiche per contrastarli” prodotto da Articolo21 e dalla Rivista San Francesco: “Non scrivere degli altri quello che non vorresti fosse scritto di te, Non temere le rettifiche, Dai voce ai più deboli, Impara a ‘dare i numeri’ (sostenere con argomenti le proprie posizioni), Le parole sono pietre, usale per costruire ponti, Diventa ‘scorta mediatica’ della verità, Non pensare di essere il centro del mondo, Il Web è un bene prezioso – Sfruttalo in modo corretto, Connettiti con le persone, Porta il messaggio nelle nuove piazze digitali.” (Articolo21, 2017). Una buona base per iniziare a definire una “Ecologia per l’Infosfera“.
Concludendo e riprendendo il titolo di Varieventuali di otto anni fa, oggi si potrebbe riscrivere:
“Le rivoluzioni le fanno i popoli, non le tecnologie. Però queste bisogna conoscerle, farne un uso saggio e … non sono neutrali!”
Nota: l'articolo fa riferimento ad uno precedente pubblicato sulla rivista di Ivrea "Varieventuali" nel 2011, dove si faceva riferimento alle manifestazioni di Tahir Square al Cairo del Gennaio 2011. Pubblicato il 9 Settembre 2018 sempre sulla rivista online"Varieventuali", viene riproposto in questa sede con l'autorizzazione dell'autore
Riferimenti
ACM (2018), ACM Code of Ethics and Professional Conduct, www.acm.org.
Articolo21 (2018), Firmato ad Assisi manifesto contro muri mediatici promosso da Articolo 21 e Rivista San Francesco, www.articolo21.org.
BBC (2018), Scroll Free September: Social media users urged to log off, 27 July 2018.
Hsu J. (2018), Engineers Say “No Thanks” to Silicon Valley Recruiters, Citing Ethical Concerns, IEEE Spectrum, 9 August 2018.
Lewis P. (2017), Our minds can be hijacked: the tech insiders who fear a smartphone dystopia, The Guardian, 6 October 2017.
O’Reilly T. (2018), Do More, Do Things That Were Previously Impossible! SxSW Conference, 9
March 2018, Reno, Nevada.
Rodotà S. (2007), Una Carta dei diritti del web, LaRepubblica, 20 Novembre 2007.
Singer N. (2018), Tech’s Ethical ‘Dark Side’: Harvard, Stanford and Others Want to Address It, New York Times, 12 February 2018.