L’umanità è entrata nel nuovo millennio con una serie di caratteristiche specifiche molto particolari. La fine definitiva del concetto di verità, la globalizzazione dei mercati e della conoscenza, il presentimento che da un momento all’altro potremmo assistere all’apparizione di un’intelligenza artificiale propriamente detta. Ma anche, l’imporsi della vita urbana sulle forme più tradizionali dell’abitare. Più della metà dell’umanità già vive in aree urbanizzate (Banca Mondiale, 2018) e la tendenza è in continuo aumento, specialmente nei paesi più poveri, dove le megalopoli attraversano un’inarrestabile processo di espansione (Cohen, 2004).
Il fenomeno di crescente urbanizzazione del territorio è tale che c’è già chi abbandona l’ancora recente definizione di antropocene per identificare il periodo in cui stiamo vivendo e propone la nascita di una successiva era geologica: l’urbanocene (West, 2017).
Le città sono strutture dissipative, nella definizione data dal premio Nobel Ilya Prigogine (1984) per descrivere i sistemi fisici che si auto-organizzano ed evolvono grazie al continuo flusso energetico che li attraversa con associato un inevitabile aumento dell’entropia nell’ambiente circonstante. Devono quindi essere studiate sotto il loro aspetto metabolico, cioè considerando i flussi che ne entrano (alimenti, elettricità, manufatti, acqua potabile) ed escono (rifiuti, informazione, calore).
Questa visione metabolica della città ha ancora i suoi detrattori – chi pensa per esempio che in realtà si tratta solamente di un insieme di edifici e strade reso apparentemente vivo dalla presenza di noi esseri umani, animali e piante che saremmo le uniche vere strutture dissipative – ciò nonostante sta diventando in fretta una delle interpretazioni più condivise tra chi si occupa di sostenibilità ed efficienza energetica nell’ambiente costruito.
Distribuzione delle temperature nella città di Lima
L’interpretazione metabolica permette infatti di spiegare fenomeni tanto sociali come fisici in senso stretto, proponendosi come contesto teorico di fondo nella concezione di una nuova scienza della città, auspicata da molti come una necessaria espansione dei campi disciplinari del sapere accademico. Una delle caratteristiche principali dei sistemi complessi è infatti quella di essere realtà emergenti. Cosa significa che la città sia “emergente”? Significa che i comportamenti assunti da chi la abita costituiscono un insieme coordinato di azioni che finiscono per generare uno stato di equilibrio dinamico che può essere compreso solamente con un’analisi a un livello superiore a quello di appartenenza delle singole parti. In altre parole, sorge un nuovo ordine a partire da azioni individuali apparentemente non collegate tra di loro. Quest’ordine può essere studiato e compreso solamente attraverso una visione globale, che permetta di guardare alla gestalt appunto, alla struttura che emerge come risultato. Una conseguenza immediata di tale interpretazione, è la spiegazione dell’apparente facilità con cui in una città si generino opportunità di interazione e quindi di successo per i singoli – almeno in un periodo di crescita con ricchezza di risorse disponibili.
Una seconda caratteristica della città in questa visione metabolica, è che i livelli di organizzazione sono gerarchici. Ciò significa che l’organizzazione si ottiene grazie a successive perdite di ricchezza in termini di diversità, che viene sostituita dalla differenziazione di compiti in una piramide sociale che diventa simbolo dell’efficienza nello sfruttamento delle risorse. Letteralmente, come descritto dallo stesso Prigogine, l’ordine sorge dal caos. Attenzione però al fatto che l’aumento di efficienza dei processi metabolici causa inesorabilmente due conseguenze: da una parte la specializzazione gerarchica si converte in lotta per la sopravvivenza del più forte, à la Darwin, riducendo di fatto la diversità (si pensi per esempio alle catene di ristoranti tipo fast food); dall’altra parte la crescita continua causa una crisi delle risorse, che nonostante l’efficienza sempre maggiore con cui vengono gestite sono comunque soggette ad uno stress notevole che aumenta sempre di più con la riduzione della diversità in termini di soluzioni metaboliche distinte.
Una terza caratteristica della città è appunto quella di essere dissipativa. L’ordine gerarchizzato che si genera – emerge – dal caos ha il costo altissimo di dover evacuare una quantità enorme di calore come risultato del processo metabolico. Per questo motivo le città si sono convertite nei punti visibili del cambiamento globale (e in particolar modo, del cambiamento climatico): sono i luoghi da cui l’energia processata deve essere emessa verso lo spazio. Il non farcela ad emetterne tanta causa il riscaldamento globale, ed anche quello locale, fenomeno forse anche più allarmante, conosciuto più frequentemente come isola di calore.
Che atteggiamento dovremmo dunque avere di fronte alla sfida della vita urbanizzata del millennio appena iniziato?
Dovremmo pensare alle opportunità che essa genera e all’efficienza crescente che sembrerebbe garantire (Bettencourt and West, 2010)? Oppure dovremmo preoccuparci per la disuguaglianza crescente figlia della piramide di organizzazione sociale che deriva proprio dall’emergere dell’ordine e della complessità (Harvey, 1977)?
Non è assolutamente facile rispondere a questa domanda. Infatti c’è chi preferirebbe ritornare alla vita rurale; c’è anche chi vorrebbe che le città fossero intermedie – ma lo stesso concetto è poco definito (intermedia è per alcuni una città di 50.000 abitanti, mentre per altri lo è una di 3.000.000 di abitanti). Non mancano, ovviamente, coloro che predicono un mondo futuro totalmente urbanizzato. E ancora, c’è chi suggerisce di crescere in verticale, chi in orizzontale. Altri dicono che bisogna crescere in spessore, cioè recuperare e riorganizzare spazi interstiziali presenti nelle città attuali (Clemente, 2012). Finalmente, altri ancora pensano che non si possa più crescere e che sia necessaria una svolta economica molto drastica verso una stabilità nei consumi o addirittura verso la decrescita (Latouche, 2009).
Certamente, il dibattito è aperto e sono benvenute le interpretazioni dei molti interessati a studiare quella che forse è la caratteristica più evidente della nostra forma di vita attuale. Infatti, la definizione stessa di “urbano” è qualcosa che chiama in causa non solamente architetti ed ingegneri, ma anche gli ecologi, i geografi, i sociologi, gli psicologi, gli storici, gli economisti, i fisici; e forse in realtà riguarda i cittadini tutti, che poi sono coloro che abitano e molte volte soffrono la forma della città.